L’ultimo grido di allarme è stato lanciato da Zamir Kabulov, inviato speciale del presidente Putin a Kabul e capo del dipartimento asiatico del ministero degli esteri russo: in Afghanistan ci sono 10.000 combattenti dell’Isis pronti a infiltrarsi in Asia Centrale e successivamente in Russia.

Un avvertimento che fa eco a quelli continuamente lanciati dai presidenti-padroni dei cinque «regimi-stan» che occupano il centro dell’Eurasia, da sempre abituati a considerare qualsiasi movimento di matrice islamica come una minaccia diretta al proprio potere e particolarmente preoccupati per l’attività portata avanti dagli emissari del Califfato all’interno dei loro confini. Oggetto di perenne contesa tra le grandi potenze della regione, la parte meridionale di quella che Halford John Mackinder, uno dei padri delle geopolitica, ha definito Heartland, il cuore della Terra, è una delle zone in cui lo Stato Islamico sta cercando di espandere la propria influenza. Da almeno un paio di anni i seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi sono alacremente al lavoro per far sì che il loro movimento possa gettare solide radici e conoscere uno sviluppo rigoglioso nella variegata flora del jihadismo centro-asiatico, la stessa in cui sono germogliati i Talebani, la Rete di Haqqani e altre decine di organizzazioni estremiste, come il Movimento islamico dell’Uzbekistan e l’Hizb al-tahrir. Il terreno di coltura dell’area, del resto, è ottimale: tutte le repubbliche ex sovietiche sono caratterizzate da livelli elevati di corruzione, povertà diffusa, crescenti sperequazioni sociali, alti tassi di disoccupazione e conflitti di carattere etnico e religioso, che offrono eccellenti sponde all’opera di reclutamento intrapresa dall’Isis.

Ma se sulla carta il Califfato dovrebbe avere gioco facile, nella realtà non è così semplice determinare se e quanto i suoi sforzi stiano portando a risultati concreti. In mancanza di dati «ufficiali», gli analisti si basano su stime, confrontandosi sul numero presunto di combattenti stranieri arruolati per combattere in Siria. Un rapporto dell’International crisis group datato gennaio 2015 parla di una cifra compresa tra 2 e 4mila persone, mentre l’International centre for the study of radicalisation ritiene che siano circa 1.500. Senza fornire numeri precisi la società di intelligence privata statunitense Soufan Group sostiene che l’Asia Centrale rappresenti il terzo maggior bacino di reclutamento dopo Medio Oriente ed Europa. E a fine aprile il generale Sergey Afanasyev, vice capo del Gru, il servizio d’intelligence delle forze armate russe, ha parlato di 4.500 unità, dato però contestato dal compatriota Azhdzar Kurtov del Risi, l’Istituto russo di studi strategici, perché ritenuto troppo alto.

Quale che sia l’effettiva portata della minaccia, due fatti non possono essere ignorati. Il primo è il cambio nella strategia di comunicazione adottata dall’Isis nella regione. Inizialmente i video in lingua russa prodotti dall’al-Furat Media Center, associato allo Stato Islamico, erano dominati da scene di takfir, vale a dire di pronuncia di kufra, ossia di empietà massima, nei confronti dei kafir, gli infedeli, che spesso venivano brutalmente giustiziati.

I filmati più recenti realizzati dall’al-Hayat Media Center, invece, mostrano persone comuni che hanno deciso di abbandonare la dar al-kafur (la dimora degli infedeli) per recarsi nel paese della dar al-Islam (la dimora dell’Islam), dove hanno trovato le condizioni adeguate per assicurare il benessere della propria famiglia e far crescere i propri figli secondo i dettami della sharia, la legge islamica.

Le immagini cruente sono state sostituite da scene di tranquillità familiare e da appelli rivolti ai cittadini delle ex Repubbliche sovietiche a lasciare il loro sfortunato paese e iniziare a godersi una vita all’interno del Califfato. Un mutamento sostanziale di approccio che potrebbe indicare da un lato la volontà di reclutare non solamente uomini ma anche donne e bambini e dall’altro la necessità di correggere un metodo di comunicazione rivelatosi non troppo efficace. Il secondo elemento da tenere in considerazione è che i governi dell’area, in particolare quelli del Tagikistan e dell’Uzbekistan, hanno usato la minaccia del terrorismo di importazione per reprimere ancora più duramente ogni forma di dissenso.

Il presidente tagiko Emomali Rahmon ha iniziato proibendo agli uomini di portare la barba lunga e alle donne di indossare l’hijab, misure giudicate come necessarie per contrastare quello che è stato presentato all’opinione pubblica interna come un processo di islamizzazione della società. Inoltre con il referendum del 22 maggio scorso Rahmon, che guida il Paese ininterrottamente dal 1992, ha ottenuto dai cittadini l’avvallo al divieto di costituire partiti politici basati su idee religiose, garantendo così l’illegittimità della principale forza di opposizione, il Partito del rinascimento islamico, dichiarato fuori legge l’anno e recentemente falcidiato da condanne esemplari.

Parallelamente il presidente uzbeko Islom Karimov, al potere da un quarto di secolo, ha adottato dure misure che hanno portato a novembre all’arresto di circa 200 persone, accusate di essere simpatizzanti dell’Isis. Analogo clima repressivo si respira in Kazakistan e Kirghizistan, mentre in Turkmenistan, meno permeato di fondamentalismo religioso, la situazione è meno tesa, anche se il governo di Asgabat non ha mancato di sottolineare timori nei confronti del crescente attivismo dell’Is nella regione.

Per valutare i progressi del Califfato in Asia Centrale serviranno altro tempo e dati più precisi di quelli a disposizione. Al momento le politiche dei gerarchi che governano le ex repubbliche sovietiche non sono in grado di contrastare quell’integralismo religioso di cui l’Isis si alimenta, e vanno anzi ad accentuare l’oppressione politica, sociale ed economica nei confronti della quale l’Is cerca di presentarsi come una valida alternativa.