Ad Hasakah la neve non si è sciolta del tutto, il freddo è pungente. Nelle case si dà fondo alle scorte di gas per alimentare le stufe e a quelle di cibo per sopravvivere in una città trasfigurata in un inferno in miniatura.

Anche per questo pompe di benzina e distributori di bombole di gas sono tra le attività essenziali – insieme alle cliniche e ai forni – che restano aperti nella città della Siria del nord-est nonostante il coprifuoco imposto ieri dalle Forze democratiche siriane (le Sdf, autodifesa armata composta da unità di diverse confessioni ed etnie). Durerà fino al 31 gennaio: ad Hasakah non si entra, fanno eccezione solo beni di prima necessità e cibo.

UN COPRIFUOCO, ma solo notturno (dalle sei di sera alle sei di mattina) è stato esteso anche alle altre città del Rojava. Una decisione obbligata, spiega l’Amministrazione autonoma, dall’attacco – ancora in fieri – dello Stato islamico iniziato giovedì sera intorno alla prigione di Sina’a, nel quartiere di Ghiweiran.

Al quarto giorno si combatte ancora, con violenza. Gli islamisti, a dimostrazione di esistere ancora e di essere motivati e organizzati, non si arrendono.

Né dentro né fuori la prigione: all’interno i prigionieri islamista in rivolta hanno ancora il controllo di due dei tre edifici della struttura, grazie alle armi confiscate alle guardie e alla presa di ostaggi. Ci sono funzionari civili (tra cui operatori sanitari), ma anche detenuti che non intendevano evadere.

L’evasione è fallita – sono riusciti a uscire in 100-110, quasi tutti ricatturati o uccisi: alla macchia ce ne sarebbero ancora una manciata – ma la situazione non è affatto sotto controllo. Da domenica le Sdf circondano l’intera prigione e usano i megafoni per convincere i detenuti alla resa. Qualcuno ha accolto l’appello: ieri all’alba si sono consegnati in 300.

DENTRO RESTANO però centinaia di minori, 700 ragazzi dai 12 ai 17 anni, i cosiddetti «cuccioli del califfato», detenuti perché bambini-soldato. Sono per lo più siriani e iracheni ma ci sono anche 150 stranieri.

Non i figli dei miliziani, chiusi con le madri nei campi di al-Hol e al-Roj, ma giovanissimi combattenti indottrinati e addestrati e ora usati come veri e propri scudi umani, presi in una sezione del carcere separata e destinata alla rieducazione e alla deradicalizzazione.

Sono sulle spalle dell’Amministrazione autonoma, insieme agli altri 5mila detenuti di Sina’a e altre decine di migliaia di miliziani e loro familiari, di cui una buona fetta stranieri che i rispettivi paesi non intendono riprendersi indietro. Una bomba a orologeria, lo ha dimostrato l’attacco di giovedì.

Secondo le Sdf, dalle confessioni raccolte tra gli islamisti catturati, all’assalto – pianificato negli ultimi sei mesi – avrebbero preso parte almeno 200 miliziani, la maggior parte dei quali provenienti dall’Iraq (il confine resta estremamente poroso) e da Gire Spi e Serekaniye, le città del Rojava occupate dall’ottobre 2019 dalla Turchia e dalle milizie jihadiste sue alleate.

QUESTE LE METE in caso l’evasione avesse avuto successo, eventualità che spinge l’Amministrazione ad accusare la Turchia di aver facilitato se non aiutato nell’organizzazione dell’assalto.

Nella serata di ieri, ci riporta il Rojava Information Center (Ric), «le Sdf avrebbero lanciato un ultimatum ai detenuti: arrendetevi prima del lancio di un’ampia offensiva per riprendere la prigione. Al momento c’è un duro scambio di fuoco con il carcere, con il sostegno di cecchini delle unità speciali americane e britanniche. Sembra che riprenderanno la parte nord nella notte. Sembra che riprenderanno la parte nord nella notte».

Si combatte anche fuori, sacche di islamisti sono ancora nascoste nei quartieri di Hasakah, prima entrando nelle case dei civili con la forza (cinque gli uccisi), ora approfittando dell’evacuazione dalla «prima linea».

Hasan Khalil, governatore della provincia per il governo centrale siriano (e non dell’Amministrazione autonoma), parlando con il quotidiano siriano al-Watan, ha calcolato in «oltre 3mila le persone che hanno già lasciato Hasakah»: «Quattro centri di accoglienza temporanei sono stati già aperti e i trasporti organizzati. Sono coinvolte anche ambulanze per il trasporto dei malati e i feriti». L’Onu dà numeri molto più alti: 45mila sfollati.

CHI RESTA, ci riportava ieri il Rojava Information Center, in alcuni casi «ha organizzato ronde di civili di ogni età per difendere i propri quartieri dagli islamisti». Ieri gli elicotteri della coalizione a guida statunitense hanno continuato a bombardare le zone dove gli islamisti si sono rifugiati e da cui continuano a colpire.

Almeno 25 gli arrestati, cinque indossavano cinture esplosive. Sale anche il numero delle vittime: uccisi 27 membri delle Sdf e delle Asaysh (le forze di sicurezza interna) e 170 miliziani dell’Isis. 110 quelli ricatturati.

Da fuori al momento non arrivano aiuti. Solo dal cielo, sotto forma di bombardamenti della coalizione. Ma di organizzazioni internazionali operative non ce ne sono e l’embargo de facto che pesa sulla Siria del nord-est e implementato dalla Turchia rende questi giorni di battaglia ancora più insopportabili.

In pieno inverno, con le temperature vicino allo zero e cadaveri per le strade, la popolazione ricade nel terrore islamista, nel buco nero di un incubo intollerabile.