Quando uccidi il negoziatore vuol dire che del negoziato non ti importa nulla. E pure del cessate il fuoco a Gaza. La scelta di Tel Aviv è quella di una guerra infinita ai palestinesi e allargata a tutto il Medio Oriente, rappresaglie comprese (se resteranno rappresaglie). È questo il messaggio brutale che Israele e Netanyahu hanno consapevolmente inviato alla comunità internazionale con l’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh, colpito a Teheran, e che aveva condotto in questi mesi le trattative su Gaza a Doha e al Cairo. Poche ore prima gli israeliani avevano ucciso in Libano con un drone Fuad Shukr, considerato uno dei vertici di Hezbollah, il movimento sciita capeggiato da Nasrallah.

Queste due operazioni contro massimi esponenti dell’«asse della resistenza» sono dirette contro l’Iran considerato lo sponsor più importante dei movimenti anti-israeliani. L’aria che tira dalle parti del governo dello Stato ebraico è quella di puntare a una resa dei conti con i suoi nemici e avversari. Il clima generale dopo l’assassinio di Haniyeh sembra quasi evocare il colpo di pistola che nel 1914 a Sarajevo fece fuori l’arciduca Francesco Ferdinando, erede del trono austriaco, e noi europei, inesistenti e muti, appaiamo come i sonnambuli, alla vigilia della grande guerra, descritti nel libro di Christopher Clark.

Dentro Hamas, Haniyeh era il referente politico all’estero, soprattutto in Qatar e tra le petro-monarchie sunnite del Golfo e rappresentava lo schieramento più favorevole al negoziato del movimento islamico palestinese. Yahya Sinwar, l’altro capo nel mirino di Israele, è espressione soprattutto dell’ala militare e del fronte interno. Anche se applicare categorie politiche tradizionali in questi casi può apparire arbitrario, Haniyeh era l’”uomo ragno” che tesseva la tela diplomatica. Insomma hanno ucciso l’uomo del negoziato.

La stessa stampa israeliana parla di una guerra regionale imminente: mastavolta il conflitto potrebbe avere conseguenze ancora più ampie.

Le reazioni adirate all’assassinio di Haniyeh di Russia e Cina – oltre che della Turchia di cui fu ospite – dicono che questi alleati di Teheran si sentono direttamente chiamati in causa. Soprattutto Pechino, primo partner economico di Teheran, che prima ha mediato un accordo tra l’Iran e l’Arabia saudita e poi, di recente, anche un’intesa tra le fazioni palestinesi per il futuro di Gaza. Quanto alla Turchia di Erdogan, in rotta di aperta collisione con Israele, non si può certo ignorare che Ankara – sulla via di riallacciare le relazioni con la Siria di Assad – è membro delle Nato dal 1953 e rappresenta il maggiore esercito dell’Alleanza sul fianco sud-orientale del Mediterraneo: tra pochi giorni ci sarà il vertice generale della Nato a Washington e non sarà certo una passerella visto che sul tavolo ci sono conflitti come l’Ucraina, Gaza e ora nel più vasto Medio Oriente.

Ma ovviamente i più coinvolti di tutti sono gli Stati uniti che non si capisce da chi siano governati e quale sia il senso delle loro azioni, soprattutto in Medio Oriente. Verrebbe da dire che dopo il discorso di Netanyahu al Congresso che il premier israeliano, ricercato dalla procura della Corte penale internazionale, abbia preso la guida anche a Washington. In realtà sta approfittando della voragine che si è aperta da qui a novembre con il ritiro dalla campagna elettorale di Biden per dare libero sfogo alla deriva bellica e omicida dello stato israeliano che dopo il 7 di ottobre ha trovato una sponda negli estremismi radicali della regione. Proseguire la guerra contro Hamas a Gaza e sul fronte nord contro Hezbollah, rappresenta una sorta di assicurazione sulla vita politica di Netanyahu e del suo governo. E questa polizza ha come garanti e complici gli Stati uniti.

Non solo Netanyahu sa che da questa amministrazione Biden in via di liquidazione non verranno conseguenze ma che gli Stati uniti saranno in guerra al suo fianco. Non ha motivo di dubitarne visto che in mesi di conflitto a Gaza – dove gli israeliani hanno fatto 40mila morti perlopiù civili – gli Usa gli hanno versato decine di miliardi di dollari di aiuti militari. Anzi, invece di frenarlo, lo hanno applaudito, con poche eccezioni, quando ha evocato nel suo discorso di Washington la guerra all’Iran. Le stesse balbettanti mediazioni americane nella regione sono apparse più che altro delle perdite di tempo. Basti pensare a quello che non ha fatto l’inviato Usa Amos Hochstein in Libano, un ex militare israeliano che ai democratici americani in questi anni è servito più a seminare guai che a risolverli.

Ma il più incredibile è il segretario di stato Usa Blinken. Scomparso da un po’ di tempo dal quadrante mediorientale, dove ha lasciato che fosse la Cia a occuparsene con i brillanti risultati che vediamo, Blinken ha evitato di fare ipotesi sull’impatto che la morte di Haniyeh avrà sugli sforzi per un cessate il fuoco a Gaza e ha dichiarato, testuali parole: «Ho imparato nel corso di molti anni a non fare mai ipotesi sull’impatto che un evento ha avuto su qualcos’altro. Quindi non posso dire cosa significa». Lunare. Questo è il segretario di stato Usa da cui in parte dipendono le sorti dell’umanità, non un passante qualunque. «Vuoto di potere in Medio Oriente», titolava in marzo un articolo di Foreign Affairs. E ora è in questo vuoto che viene inghiottito il destino di milioni di persone.