Le prossime ore saranno decisive per capire se l’assassinio di Ismail Haniyeh e quello (che attende ancora conferma) del comandante militare di Hezbollah Fuad Shukr scateneranno una guerra regionale. Intanto, in casa palestinese, un riflesso del via libera dato da Benyamin Netanyahu all’uccisione del capo politico del movimento islamico è lo sdegno che ha suscitato anche tra gli avversari di Hamas.

Non è passata inosservata la condanna del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen e quella dello scomodo Mohammed Dahlan, nemico per anni di Hamas. Entrambi hanno parlato di «atto codardo». Parole che forse non sono soltanto un frutto delle circostanze e della necessità di rappresentare i sentimenti dell’intera popolazione palestinese.

HANIYEH ERA per natura pragmatico e conciliante verso esponenti di altre formazioni palestinesi, restando allo stesso tempo fedele alla linea della sua organizzazione. Un atteggiamento in parte diverso da quello di altri dirigenti di Hamas convinti della irreparabilità delle relazioni con il partito Fatah di Abu Mazen dopo la rottura violenta del 2007 quando il movimento islamista prese il potere con la forza a Gaza.

L’anno prima ad Hamas – vincitore delle elezioni legislative palestinesi – Anp, Usa e paesi occidentali non diedero la possibilità di governare i Territori palestinesi occupati e attuarono sanzioni e boicottaggi contro il governo guidato da Haniyeh che non aveva riconosciuto Israele. Tel Aviv attuò una massiccia campagna di arresti in Cisgiordania e a Gerusalemme est e decine di deputati e ministri di Hamas finirono in cella.

Gli Stati uniti qualche anno fa hanno dichiarato Haniyeh un «terrorista globale». Israele lo ha sempre descritto come un «assassino al servizio dell’Iran» e dopo il 7 ottobre un «milionario che vive in hotel di lusso mentre i palestinesi di Gaza patiscono la fame». Ben diverso il giudizio dei palestinesi, anche quelli che non appoggiano Hamas, che in Haniyeh vedevano un uomo del popolo al quale i bombardamenti israeliani hanno ucciso tre figli, quattro nipoti e altri parenti.

Nato 61 anni fa nel campo profughi di Shati (Gaza city) Haniyeh era figlio di un pescatore. Come tutti i profughi aveva studiato nelle scuole dell’Unrwa (Onu) per poi laurearsi in letteratura araba all’università islamica di Gaza. All’epoca molto giovane, non fu tra i fondatori di Hamas il 14 dicembre 1987, all’inizio della prima Intifada, ma entrò subito nell’organizzazione diventando uno degli assistenti del leader, lo sceicco Ahmed Yassin. In poco tempo arrivò ai vertici del movimento e quando, venti anni fa, Yassin fu assassinato da Israele, fu messo a capo di un triumvirato. Da quella posizione, sostenne la partecipazione di Hamas alle elezioni per il Consiglio legislativo dell’Anp, quindi sulla base di accordi con Israele sottoscritti dal leader della rivale Olp, Yasser Arafat.

Durante la sua breve esperienza di primo ministro dell’Anp, Haniyeh continuò a ribadire il «diritto dei palestinesi anche alla lotta armata per liberarsi dall’occupazione israeliana».
Allo stesso tempo cercò di instaurare relazioni internazionali rimarcando la scelta politica e non militare compiuta dal suo movimento.

Si propose come un leader dialogante con l’Occidente e il resto del mondo. E a scopo di immagine rese nota persino la sua nota passione per il calcio europeo. Video dell’epoca lo mostrano mentre segna un gol, tra le feste di giovani sostenitori, durante una partita in un campetto di Gaza.

I SUOI TENTATIVI di dialogo non diedero frutti per la chiusura dei suoi interlocutori. Il boicottaggio occidentale, gli arresti di deputati e ministri di Hamas in Cisgiordania, la prova di forza con Fatah nel 2007 e l’assedio di Gaza attuato da Israele, portarono a un suo parziale ridimensionamento. Restò sempre ai vertici di Hamas ma la sua influenza diminuì a vantaggio dell’ala militare che fece pesare ai «politici» l’insuccesso del percorso elettorale e l’inutilità della conquista del parlamento del’Anp.

«Dopo la presa del potere a Gaza – spiega l’analista Ghassan Khatib – le Brigate Qassam e i loro comandanti Mohammed Deif e Nabil Jabari ottennero molto potere e una sorta di diritto di ultima parola sulle decisioni politiche. Questo sviluppo si è fatto più marcato dopo la scarcerazione nel 2011 del ‘militare’ Yahya Sinwar e il suo ritorno a Gaza dove sarebbe stato eletto leader locale di Hamas. Il 7 ottobre ha ulteriormente accresciuto il potere del braccio armato sulla direzione politica».

Haniyeh dopo il 2011 ha subito per anni la scelta «antisciita» e filo Turchia/Qatar portata avanti dal rivale Khaled Meshaal nominato nel frattempo capo del politburo di Hamas.
Con la ripresa dei rapporti con Teheran e Hezbollah e il ridimensionamento di Meshaal, Haniyeh è stato eletto nel 2017 a capo dell’ufficio politico. Il suo ruolo è però rimasto confinato all’estero – tra Libano, Turchia e Qatar – dove ha vissuto negli ultimi cinque anni con compiti soprattutto diplomatici.

Dopo il 7 ottobre ha tenuto i rapporti con i mediatori arabi, Qatar ed Egitto, nella trattativa per un accordo di tregua e lo scambio di prigionieri con Israele, ma l’ultima decisione è rimasta nelle mani di Sinwar a Gaza.

«LA PERDITA di un leader è sempre un momento difficile per un’organizzazione militante. Tuttavia, da un punto di vista operativo, sul terreno la perdita di Saleh Aruri (alto dirigente di Hamas ucciso a gennaio da Israele, ndr) è stata più pesante per il movimento islamico. Aruri era fondamentale per la mobilitazione delle forze di Hamas in Cisgiordania. Haniyeh aveva un peso nei rapporti con gli alleati e vari paesi».

Il nuovo capo del politburo di Hamas sarà scelto con le prossime elezioni interne. Ad interim potrebbero svolgere questo ruolo Musa Abu Marzouk, l’ultimo dei leader storici del movimento, o Khalil al Haya considerato vicino a Sinwar.