È stata Beirut la prima capitale mediorientale a veder scendere in piazza centinaia di persone contro i tagli occidentali all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa. In Libano vivono circa 200mila rifugiati palestinesi, da apolidi. Campi profughi sovraffollati, pochi servizi, pochissimi diritti.

La crisi strutturale che da anni soffoca l’Unrwa si fa sempre più nera, nella diaspora come a Gaza. Da giorni c’è chi si chiede come mai nessun paese occidentale abbia immaginato sanzioni a Israele dopo l’avvio all’Aja del processo per presunto genocidio, ma sia corso a togliere finanziamenti essenziali a sei-sette milioni di profughi per le presunte azioni di una decina di dipendenti Onu (ieri la Svezia si è unita a Germania, Svizzera, Italia, Canada, Finlandia, Australia, Regno unito, Olanda, Stati uniti, Francia, Austria e Giappone).

UNA RISPOSTA indiretta ieri l’ha data il Canada, che ha scelto la via più pelosa: confermato il taglio all’Unrwa, verserà 28,9 milioni di dollari a Unicef, Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e World Food Programme. Un modo per delegittimare non solo un’agenzia con 70 anni di storia, ma per minare l’idea che la diaspora palestinese – la più duratura del post-1945 – sia meritevole di un ente dedicato.

A Gaza la paura continua a montare. Gli aiuti già scarsissimi rischiano di sparire. A dare voce al timore sono stati Medici senza Frontiere e Oms: la prima ha ribadito che «ogni limitazione aggiuntiva agli aiuti provocherà più morte e sofferenza», in contraddizione con le misure provvisorie emesse lo scorso venerdì dalla Corte internazionale di Giustizia; la seconda ha definito le accuse all’Onu «una distrazione da quello che avviene ogni ora a Gaza», ovvero «i bombardamenti continui» e gli attacchi a «rifugi, scuole, ospedali».

Gli ospedali, appunto. Mentre per il settimo giorno consecutivo decine di israeliani protestavano contro l’invio di camion umanitari a Gaza al valico di Kerem Shalom e ora anche a quello di Nitzana, a Khan Yunis – da settimane linea del fronte – l’esercito israeliano compiva un raid nell’ospedale Al Amal: secondo la Mezzaluna rossa, gli sfollati che li avevano trovato rifugio sono stati costretti a uscire dai fucili spianati dai soldati, mentre «i tank stazionano davanti all’ospedale, sparando proiettili e granate». Tel Aviv nega.

Ammette invece di aver iniziato da qualche tempo ad allagare i tunnel di Hamas con acqua di mare, un’azione che metterebbe a rischio gli ostaggi che lì potrebbero essere nascosti e che causa danni irreparabili alle falde acquifere gazawi.

A oggi è di 26.751 il numero ufficiale di palestinesi uccisi dal 7 ottobre a Gaza. È in tale contesto che prosegue, a singhiozzo, il cosiddetto «negoziato di Parigi». Ieri funzionari egiziani anonimi si sono spinti a dare per quasi imminente l’accordo: entro l’inizio della prossima settimana.

Ufficialmente le due parti – Hamas e Israele – minimizzano, cosa accada dietro le quinte non è dato sapere. Mohammad Nazzal, membro del politburo di Hamas, ha detto che il movimento sta discutendo la proposta di Egitto, Usa e Qatar (almeno un mese di tregua nella prima fase, con il ritorno di una buona parte degli ostaggi e la liberazione di un numero non precisato di prigionieri politici palestinesi) ed è disposto al rilascio di tutti gli ostaggi.

IN OGNI CASO, ha aggiunto, «senza il ritiro israeliano non potremo accettare» perché l’obiettivo resta «un cessate il fuoco permanente». Identica la posizione del Jihad islami.

Da parte sua il premier israeliano Netanyahu ha detto che no, «non ci sarà un altro round…sento parlare di accordi. Voglio essere chiaro: non metteremo fine alla guerra fino al raggiungimento dei nostri obiettivi. L’eliminazione di Hamas, il ritorno di tutti gli ostaggi e la garanzia che Gaza non rappresenti più una minaccia a Israele».

Di certo pressioni gli arrivano dal fianco destro, con il ministro estremista Ben Gvir che si dice pronto a far cadere il governo nel caso di un accordo con Hamas. In mezzo si inserisce il ministro della difesa Gallant: sarà Israele – ha detto ieri – a controllare Gaza dall’interno, esattamente come fa in Cisgiordania. West Bank style.