Stava rientrando dalla Turchia, era in viaggio dall’aeroporto di Tripoli verso Misurata quando il suo convoglio è stato assaltato: il sindaco di Misurata, Mohamed Eshtewi, legato al governo di unità nazionale (Gna) di Sarraj, è stato rapito domenica sera in un agguato e poi ucciso. Il suo corpo è stato trovato di fronte all’ospedale di Safwa, crivellato di pallottole.

Nessuna rivendicazione, ma per la stampa libica il principale sospettato è il Consiglio militare di Misurata guidato dal colonnello Ben Rajeb, che da tempo minacciava Eshtewi perché lasciasse: lo scorso maggio lo dichiarò unilateralmente rimosso, crisi poi rientrata.

Ma c’è anche chi pensa ai fedelissimi della famiglia Gheddafi e chi a un intervento degli uomini del generale ribelle Haftar, a capo delle forze armate in Cirenaica.

La morte del sindaco della terza città libica, fedele al Gna è l’ennesimo fattore di destabilizzazione della Libia, che giunge insieme agli scontri in corso in queste ore a sud di Sirte tra l’esercito di Tobruk e le milizie di Misurata. Un confronto che arriva a poche ore dalle parole di Khalifa Haftar che domenica, con tempismo perfetto, ha dichiarato defunto quell’accordo di Skhirat che lui non ha mai riconosciuto.

Il Gna, ha detto, è scaduto, lo prevede il protocollo siglato il 17 dicembre 2015 sotto l’egida Onu. Sarraj ha risposto ieri: «L’accordo non ha data di scadenza, l’unica scadenza ci sarà dopo le elezioni».

Elezioni a cui Haftar punta: senza dirlo espressamente, ha fatto capire che si candiderà alle presidenziali del il 2018. Di date certe non ce ne sono, tutto è appeso alla volatile volontà delle parti: Sarraj e Haftar si incontrarono a luglio per una sorta di intesa mai ufficializzata nella quale dichiararono l’intenzione di portare la Libia alle urne entro il prossimo anno.

Sotto quale autorità e in che forma non è dato sapere: con il Gna effettivamente scaduto ma legittimato dai paesi vicini e dall’Onu che lo danno comunque per operativo, senza un’effettiva riconciliazione interna, parlare di elezioni è pratica vuota.

Il fantasma delle urne è comunque un’occasione imperdibile per un altro protagonista in fieri: secondo il portavoce della famiglia Gheddafi, anche Saif al-Islam (figlio del colonnello) si candiderà, forte del sostegno che molte tribù libiche ancora riconoscono al clan.

Le autorità libiche si moltiplicano, radicate nel proprio personale feudo o bacino di riferimento. L’Onu arranca, consapevole della debolezza intrinseca del Gna arroccato in mezzo al mare, e l’Italia – prim’attrice parzialmente scalzata da Parigi e Mosca – si aggrappa all’Egitto.

Un partner non certo casuale a cui la legano rapporti storici e, più di recente, una crisi diplomatica la cui soluzione interessa entrambe le capitali. Tanto da spingerle una nelle braccia dell’altra: la normalizzazione serve a tutte e due. Al Cairo che dell’omertà internazionale fa la sua fonte di legittimazione interna e a Roma che non intende mollare la presa né del file libico né di quello migranti.

La visita, domenica, del ministro degli interni Minniti al Cairo ha puntellato gli interessi italiani: con al-Sisi ha discusso di cooperazione nella lotta all’immigrazione illegale (il ministro ha lodato gli sforzi della controparte), di Libia (con Minniti che sottolineava l’importanza delle urne e al-Sisi quella di garantire un ruolo centrale al figlioccio Haftar), di incremento dei rapporti economici e degli investimenti nazionali, già aumentati negli ultimi mesi.

Hanno discusso, come protocollo imponeva, anche di Giulio Regeni. A Minniti il presidente golpista ha consegnato la stessa identica narrazione: Il Cairo ha «una forte volontà di conseguire risultati definitivi». Eppure a 23 mesi dalla sparizione di Giulio non esiste alcun punto fermo nella ricostruzione degli eventi.

Unico elemento di novità è l’annuncio di un incontro, a sei mesi dall’ultimo, tra la procura di Roma e quella generale egiziana. Dovrebbe avvenire nei prossimi giorni, in Egitto.