Una delle donne ritenute più colpevole negli ultimi 50 anni, Ulrike Meinhof, aleggia in questa mostra forense atipica e cristallina che sfida le norme d’ingaggio della criminologia femminile. Parte della programmazione di fine 2022 e inizio 2023 di Kunstraum Kreuzberg/Bethanien istituzione pubblica che risiede in un edificio storico e rimane eco di un quartiere pregno di rivolta femminile e non, anarchia messa in pratica, immigrazioni, storiche occupazioni. «Colpevole, colpevole, colpevole! Verso una crimologia femminista» (Guilty, Guilty, Guilty! Towards a Feminist Criminology/Entwürfe zu einer feministischen Kriminologie) non è solo una mostra disobbediente e insubordinata ma un’indagine curatoriale che vuole colmare ed edificare, se non un canone, delle fughe prospettiche sulla criminologia femminile femminista. Getta le basi per discutere cosa sia la colpa e come viene confezionata quando riguarda le donne, mettendo a nudo le matrici patriarcali assiomatiche delle società capitaliste e occidentali. Assesta un ricco percorso espositivo e un discorso corale sul potere giudiziario quando ha a che fare con donne sotto giudizio quali cattive madri, mogli in cause di divorzio, rivoltose, e fuorilegge. Indica come anche il tribunale, potenzialmente super partes, sia uno spazio in cui una precisa immagine politica ed ideologica delle donne sia implicita, e come sia immediatamente presente nelle negoziazioni e nella costruzione del giudizio e della difesa, Processo per stupro ce lo insegnò dalla Tv nazionale.

E come ha sostenuto la sociologa Carol Smart fin dalla fine degli anni ’70, citata dalla curatrice, c’è una mancanza impressionante quando si tratta di valutare una criminologia femminile, e ancora di più se osiamo pensare a una criminologia femminista. Scandagliare quest’ultima è uno degli obiettivi di questo progetto. Sonja Lau si e ci chiede quando una donna è colpevole di omicidio o colpevole di essere viva? Colpevole di aver infranto la legge, o colpevole di averla infranta «in modo non femminile»?

Colpevole, colpevole, colpevole! Verso una criminologia femminista risponde a queste domande in due modi. In primo luogo, fornendo l’accesso a uno specifico archivio di saperi femministi sull’imputato di sesso femminile che di solito è escluso dalla vista o messo a tacere in polverose montagne di fascicoli. E soprattutto stabilisce, creando un senso di coerenza e solidarietà tra episodi di disobbedienza femminile altrimenti parcellizzati, sradicati o presumibilmente singolari – una chiave importante per una lettura femminista della legge. In mostra troviamo Susanne Sachsse e Barbara Breitenfellner che affrontano i costrutti giuridici della femminilità e della maternità, Nika Dubrovsky, Ekaterina Shelganova che lavorano sulla distribuzione della colpa nei processi di divorzio e di custodia dei figli, il caso della mafia ebraica dell’est Europa di fine 800 Zwi Migdal, che insieme alle migrazioni schiavizzava e trafficava donne nei nuovi mondi, illustrato in una cartografia a parete da Galit Eilat. Rüzgâr Buski e Ipek Duben prendono in considerazione i casi di uccisioni per legittima difesa e di coloro che non fossero in grado di difendersi. Buski risponde all’urgenza della colpevolezza nell’attuale rivolta femminile iraniana a seguito della tortura ed omicidio di Mahsa Amini.

Quasi tutte intrecciano le personali esperienze con la percezione del comune senso del pudore e del giudizio. L’installazione di Susanne Sachsse evoca con un audio a tre voci ed un video su finestra una autobiografia come fantasma in bilico tra accadimenti, percezione e il ruolo di doppiamente sfruttata; come membro della classe lavoratrice, come moglie e come madre di membri della classe lavoratrice. Forever my darling. An entertainment service ci porta nella percezione del sé al limite con l’ossessione e la pazzia per quella mancata rivoluzione; «una volta che vengono rivoluzionate le madri non c’è più niente da rivoluzionare». Sachsse memore delle visioni di maternità di Brecht e Benjamin, cresciuta nella DDR e nelle trasformazioni queer sa bene come declinare l’emancipazione femminista. I collage e le stampe bicolori di Breitenfellner inquietano ed attraggono come una scena di Suspiria o di Don’t look now (A Venezia… un Dicembre rosso shocking), drastici nelle scelte delle immagini da riassemblare, si presentano con aria sovversiva dello status quo proprio come una vista dall’alto della prigione di Stammheim accanto a dei sopramobili di porcellana. Ed è un segmento di Bambule di Ulrike Meinhof, morta in cella nella prigione di Stammheim a Stoccarda, un film Tv sulla repressione inflitta a ragazzine e giovani donne negli orfanotrofi tedeschi, che viene ripreso da Dennis Adams in Outtake, 17 singoli fotogrammi di una fuga nel corridoio di un riformatorio espansi e ridistribuiti a nuova vita in una vetrina nella zona di shopping su Kurfürstendamm a Berlino.
Abbiamo rivisitato la mostra insieme alla curatrice Sonja Lau:  «Uno delle molle direi sia stata ripensare ad una storia scomparsa dalla Germania contemporanea. La storia di Marianne Bachmeier che nel 1981 in tribunale spara ed uccide l’assassino di sua figlia, e soprattutto la narrazione di questo fatto. Subito dopo l’opinione pubblica era con la madre, difendendo il suo atto come conseguenza del terribile crimine perpetrato ad una bambina di sette anni. Ma dopo alcune indagini giornalistiche sulla sua vita in cui si narrò che gestiva un pub, che spesso beveva, ed aveva dato in adozione le sue due prime figlie, avute a 16 e 18 anni, fu improvvisamente stigmatizzata come colpevole, il sostegno del pubblico sparì e l’opinione non trattò più l’evento come un’atto d’amore materno in quanto l’imputata si rivelò essere una cattiva madre. Bachmeier venne giudicata dentro e fuori la corte come madre non come omicida. Un’altra traccia è l’idea della donna fisicamente forte che nella cultura occidentale, o almeno quella dalla quale io provengo, viene narrata spesso come capace di portare e sopportare incombenze e pesantezze fino allo stremo ma mai come una persona che si esprima con violenza o che possa generare violenza nella società. Come se ci fosse un solido tabù di fondo che incute timore e ostacoli tali narrazioni, dell’espressione di una forza fisica femminile. Un’altra traccia è la percezione e il meccanismo dell’autodifesa quando e come viene percepita e giustificata come tale. Un’altra ancora è stata la storia delle guardie naziste donne nei campi di concentramento femminili e dei processi di Ravensbruck del dopoguerra nei quali vengono inquadrate come bestie avvenenti o come incapaci di intendere e volere. Anche in tale contesto vengono iper sessualizzate o rese vittime. E la maggior parte delle donne tedesche naziste attive nei campi di concentramento furono giudicate non colpevoli in base alla allora diffusa opinione che non sapevano bene ciò che stessero facendo o che non riuscivano a rifiutarsi di eseguire ordini. Il campo dell’arte a differenza di quello del diritto ha la possibilità di creare spazio e ragionamenti su queste mancanze giuridiche. L’approccio volendolo esaminare non è ortodosso nel senso che si basa esclusivamente su esperienze dal punto di vista femminile, alcune delle artiste sono state in giudizio, e segue le tracce di speculazioni artistiche e di coinvolgimenti diretti».

Questa prassi sembra essere invero ortodossa per la futura costruzione femminista di una criminologia femminile, visto che si basa su dati ed eventi tradotti o filtrati dall’esperienza diretta e da speculazioni soggettive delle colpevoli o delle indagate, quindi non solo sulla gerarchia classificatoria dominante del ordinamento giuridico. Lau risponde: « Certo, non a caso il sottotitolo della mostra è ad un certo punto scaturito senza dubbi. Anche le letture di Saidiya Hartman sulla sottomissione e l’insubordinazione mi hanno accompagnato nelle formulazioni. E il fatto reale e simbolico che ogni caso di donna colpevole di reato porta con sé un’agenda politica, che sia del tribunale, che sia dell’indagata, del contesto in cui il crimine viene perpetrato, la questione non appartiene mai solo alla persona autrice di reato».

Sullo stigma della donna evil, crudele e senza pietà, che arricchisce per così dire tante culture, sopra e sotto l’equatore: il cinema noir americano ci ha costruito sopra un genere…  «In letteratura le narrazioni sulle donne che nella seconda metà dell’800 soprattutto in Francia e Gran Bretagna avvelenavano i mariti con l’arsenico, sia in ambiente domestico occidentale che negli harem nell’Impero Ottomano. Leggendo i resoconti di un viaggiatore inglese della fine 800 egli consiglia di rimanere sempre in guardia negli harem di Istanbul che le donne potrebbero avvelenarne i frequentatori. Già in questi casi lo stereotipo della donna remissiva e accondiscendente verso il maschio occidentale nell’harem orientale o tra le mura domestiche in occidente viene infranto».

Le donne hanno accumulato ogni tipo di colpevolezza nella storia ed in ogni dove. L’idea di colpevolezza per la donna è quasi insita nella sua persona pubblica.  «L’esempio più semplice è Eva ovviamente. Nasciamo con delle colpe pregresse dalle quali si fatica a liberarsi. Decostruire e mettere in crisi alcuni di questi stigma, a cominciare dal campo giuridico è la trama che unisce i lavori in mostra, compreso quello del ruolo della madre, come ci si aspetti che abbracci il suo ruolo con forza indefessa e infinito amore. E tuttora non viene narrata né messa al centro la brutalità del divenire madre. É un’esperienza incredibile, meravigliosa e brutale, soprattutto perché non si è preparate, tutto assume nuove sembianze a cominciare dal nostro corpo e si diventa madre non ci si nasce».

Questo divenire può assumere tante forme non sempre accoglienti e affettuose, anzi facilmente può fagocitare. Il lavoro di Nika Dubroyski è molto importante, molte di noi ci sono passate attraverso, cause di divorzio e separazione, e la violenza insita, nel dover dimostrare certezze e confermare ruoli ritagliati a misura dalla società che non corrispondono con le realtà individuali e soprattutto politiche nelle quali una donna separata deve vivere ed operare. Lau: «Una scelta importante è stata coinvolgere non solo artiste che frequentino il femminismo a livello teorico o che contribuiscano a distanza al discorso, ma artiste che abbiano avuto esperienza diretta ed agito in modalità femministe, le cui azioni attraverso le loro opere, possano arricchire il campo d’indagine come vediamo nel gruppo di lavori sulle condizioni precarie di detenut@ queer in carceri giovanili statunitensi di Sam Richardson, Krystal Shelley and Shevaun Wright, riuniti da Suzana Milevska. L’ondata giuridica del movimento Metoo abbia contribuito a formulare le basi per la mostra, soprattutto le campagne di diffamazione mediatica che in alcuni casi erano chiaramente maschiliste e rendono molto difficile sgombrare il campo dagli stereotipi e dalle visioni granitiche nella formulazione di un giudizio. Penso al caso Depp vs Heard. E viene anche da pensare alla storia della pazzia femminile tra ordine sociale, ordine giuridico e potere simbolico. Una donna pazza? Chi non lo è mai stata»?