I russi del 2022 hanno una cosa in comune con i tedeschi del 1917: nella comunicazione sono imbranati. Proprio non ci arrivano. Qualunque balla colossale venga confezionata negli scantinati del Ministero della difesa inglese, oggi come 105 anni fa, prende piede sulla stampa mondiale senza che Vladimir Putin, come il Kaiser Guglielmo II a suo tempo, faccia qualcosa di diverso dal balbettare «Non è vero».

Per chi non l’avesse ancora capito i maestri insuperabili della propaganda bellica stanno a Londra e sono dei signori ben vestiti, con dei curatissimi baffi bianchi, vestiti confezionati in Savile Row e un bicchiere di whisky con ghiaccio in mano. Seduti nelle poltrone di cuoio del loro club esclusivo inventano storie su ciò che sta accadendo al fronte.

PER ESEMPIO, il Times del 16 aprile 1917, lanciò una storia che avrebbe fatto il giro del mondo: «Uno dei consoli degli Stati uniti, lasciando la Germania in febbraio, ha dichiarato in Svizzera che i tedeschi distillavano glicerina dai corpi dei loro morti». Barbari, mostri, cannibali.

La Germania dovette convivere con questa accusa fino al 1925, quando il generale di brigata Charteris, che era stato responsabile dell’intelligence militare britannica durante la prima guerra mondiale, ammise per la prima volta di essere stato di essere stato il responsabile della frottola.

Il Times del 17 aprile 2022, invece, aveva in prima pagina un titolo che era un modello di giornalismo sobrio, dove i fatti sono separati dalle opinioni: «Nemmeno una reliquia della Vera Croce è riuscita a tenere a galla la Moskva, che stazzava 12.500 tonnellate».

Secondo l’autore dell’articolo, a bordo dell’ammiraglia della flotta russa c’era quella che la Chiesa ortodossa considerava una sacra reliquia, con il potere di proteggere la nave dagli attacchi degli infedeli. Forse non era veramente un frammento della croce su cui morì Gesù perché in effetti la Moskva era stata affondata nei giorni precedenti da missili ucraini.

LA STORIA INIZIA il primo giorno di guerra, il 24 febbraio, sull’Isola dei serpenti, nel Mar Nero, quando la marina russa si era presentata davanti all’isola, intimando alla sua piccola guarnigione di arrendersi o di affrontare un bombardamento navale e una morte certa.

Secondo tutta la stampa di lingua inglese, dall’Alaska a Sydney, felicemente seguita dalla stampa italiana, la risposta di uno dei suoi guardiani, Roman Hrybov era stata Rússkiy voyénniy korábl, idí náhuy! ovvero «Nave da guerra russa, vai a farti fottere».

Qui il Club Ucraina di Londra ha un po’ mancato di originalità perché l’episodio sembra piuttosto un copia/incolla della risposta del maresciallo francese Cambronne agli inglesi sul campo di battaglia di Waterloo (1815), che nei libri di scuola è riportata come «La Guardia muore ma non si arrende!» mentre nel folklore dell’esercito napoleonico è nota come: «Merde!».

SUBITO DOPO gli ucraini danno per massacrati i 13 componenti della guarnigione dell’isola (un insignificante scoglio di circa 200 metri per un chilometro) e si affrettano a stampare francobolli in onore dei martiri, oltre a invadere la stampa occidentale di dettagli orripilanti.

Dopo tre mesi di martellamento, quando era opportuno trovare nuovi temi, il 17 maggio il Financial Times finalmente scrive: «Nonostante il valoroso rifiuto di Hrybov di arrendersi, la guarnigione dell’Isola dei Serpenti depose le armi e fu poi rilasciata dai russi in uno scambio di prigionieri». Grazie per avercelo detto.

Un’altra notevole performance del Club Ucraina è stata l’offensiva su Kherson, annunciata in giugno (ma le voci circolavano fin dall’aprile scorso quando era stata concepita dai gentlemen con le cravatte regimental).

Da metà luglio in poi, sostanzialmente ogni giorno veniva annunciata l’avanzata verso Kherson, la sola grande città che gli ucraini speravano di riconquistare. I missili Himars facevano non solo strage di mezzi corazzati russi ma rendevano inutilizzabili i ponti su Dnieper necessari ai rifornimenti delle truppe che occupavano la città ucraina.

LA NOTIZIA dell’offensiva aveva di che sorprendere gli esperti militari: di solito chi annuncia un’avanzata imminente è un traditore, una spia del nemico che viene immediatamente fucilata alla schiena.

Al fronte, i requisiti n. 1, 2 e 3 di un attacco con speranza di successo sono: la sorpresa, la sorpresa, la sorpresa (noi italiani avremmo dovuto impararlo almeno dal 1917, quando gli austriaci e i tedeschi sfondarono il fronte a Caporetto). E invece no: il Kyiv Independent si ostinava a strillare la notizia dell’offensiva ai quattro venti, volentieri imitato dalla stampa italiana (salvo poi pubblicare le foto di automobili che passavano sul ponte Antonovski, sia pure accanto a qualche buca).

È stato solo il 4 agosto scorso che il Financial Times nascondeva all’interno di un lungo articolo sui successi delle truppe ucraine questa dichiarazione di un rispettato esperto del Royal United Services Institute: «Se e quando accadrà, Kherson sarà un’offensiva significativa che potrebbe dare all’Ucraina uno slancio e la possibilità di riconquistare la narrazione». Se e quando accadrà? Ma non era già accaduta da un pezzo? E gli ucraini devono riconquistare la città o riconquistare la “narrazione”? Lunedì hanno annunciato per la 57° volta che l’offensiva era pronta a scattare, e ieri che avevano sfondato il fronte russo. Vedremo.

In realtà è la narrazione l’unica cosa che conti: il 10 giugno 1915 il Financial News, (l’antenato del Financial Times) scriveva che il Kaiser aveva ordinato agli aviatori tedeschi di fare sforzi speciali per uccidere i figli di Re Alberto del Belgio, che era stata promessa doppia paga agli equipaggi dei sommergibili che avessero affondato navi che trasportavano donne e bambini, e che Guglielmo II aveva personalmente ordinato di torturare i bambini belgi di tre anni, specificando le torture da infliggere (a chi vuole maggiori particolari consiglio lo straordinario libro di Philip Knightley, The First Casualty).

IN TEMPI PIÙ VICINI a noi, nel 2003, Bbc e Itv riempirono l’etere con una valanga di immagini di “folle festanti” per l’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Baghdad, occupata da truppe americane e inglesi.

Il giorno 10 aprile, per esempio, molti giornali italiani avevano didascalie di questo tipo: «La gente di Baghdad in festa balla sui rottami della statua del dittatore» oppure: «La statua del dittatore sta per crollare. Ai suoi piedi, la folla si lascia finalmente andare: la dittatura non c’è più».

PECCATO che non ci fosse alcuna folla. Come si vedeva da una panoramica presa dall’ultimo piano dell’hotel Palestine, e messa in rete da un sito di controinformazione, la piazza era chiusa dai carri armati americani, collocati attorno all’ovale verde dove si trovava il monumento, e sotto la statua c’era un piccolo gruppo di giornalisti, soldati americani e qualche curioso iracheno.

Non c’era alcuna “folla festante” e anzi, come aveva rilevato il coraggioso Robert Fisk del quotidiano Independent, quella dell’abbattimento della statua era stata probabilmente l’immagine di guerra più “coreografata” dal 1945 in poi.

Aspettando la prossima sceneggiatura dei gentlemen inglesi, la guerra continua.