Il Fondo Monetario sconta una tendenza del commercio e delle attività produttive mondiali a rallentare. Ciò che è più grave, l’economia di mercato capitalistica conferma i suoi tre sempiterni, radicati, difetti. È iniqua: l’1% più abbiente detiene quasi il 50% della ricchezza dell’intera umanità. È inquinante: la temperatura va a travalicare la soglia del riscaldamento globale, che sconvolge l’ambiente. È instabile: l’inflazione non è domata dalle incerte politiche monetarie della Fed e della Bce e il suo rialzo provocherebbe un ulteriore riduzione della crescita. Gli emigrati già sfiorano il 4% dell’umanità, oltre trecento milioni di persone.

Questi problemi, di gran fondo, incombono su tutti i paesi. Le stesse democrazie sono indebolite. Ma invece di cooperare per farvi fronte i governi coltivano e minacciano conflitti, caldi e freddi, con rischio atomico sullo sfondo, che certo non alimentano aspettative di sviluppo. Basti evocare la miopia della risposta economica dell’Occidente all’aggressione dell’Ucraina. Sanzioni, autarchia, protezionismo, fonti d’energia più costose di quelle russe, congelamento dei danari di Mosca all’estero si ritorcono sui paesi promotori. Hanno stravolto la rete di relazioni commerciali e finanziarie consolidate che nel tempo la cooperazione consentì e che solo la cooperazione può, nel tempo, ricostruire. Il sostegno a Israele nello scontro con Hamas e il massacro dei civili palestinesi, di fatto, isolano i paesi occidentali dal resto dell’umanità, ben più popoloso e con potenzialità di sviluppo economico.

Gli Stati uniti «drogano» la loro economia. Insistono nel forzare la domanda interna. Ma la dinamica della produttività è in discesa, il debito pubblico sfiora il 130% del Pil, la bilancia dei pagamenti permane in disavanzo da oltre mezzo secolo, la posizione netta del paese verso l’estero è debitoria per oltre 18 trilioni di dollari, 70% del Pil. Fra la Cina creditrice in sia pur rallentata ascesa e gli Stati uniti debitori in relativo declino l’Europa non riesce a darsi una linea. In politica è divisa. L’attività produttiva è fiacca, con la più forte economia industriale del mondo – la Germania – addirittura in recessione. Per il 2024 è forse ottimistica la previsione, pur mediocre, di una espansione europea dello 0,8%. Il nuovo Patto di stabilità mira a tagliare il debito pubblico. Ma non lo fa rilanciando investimenti in infrastrutture utili ai cittadini e capaci di moltiplicare reddito e gettito tributario, fino ad autofinanziare la spesa iniziale. Keynes ha chiarito ciò quasi un secolo fa, ma Berlino e Bruxelles persistono nel considerare nei pubblici bilanci gli investimenti alla stessa stregua delle uscite correnti: macroscopico errore.

In un quadro siffatto l’economia italiana continua a languire. Dopo il rimbalzo seguito al crollo da Covid del 2020 il Pil è tornato ad attestarsi sulla annosa tendenza intorno allo zero-virgola per cento, zero senza virgola pro capite. Tutti e tre i motori della crescita rimangono semi-spenti: gli investimenti netti, la domanda globale, il progresso tecnico. Il dato più preoccupante è proprio l’assenza di progresso tecnico, con la produttività totale delle risorse inchiodata ai livelli del 1995, trenta anni fa! Ci sono poi il debito pubblico prossimo ai tre trilioni di euro, la sanità in crisi, un territorio fragile e indifeso, il Mezzogiorno abbandonato a se stesso, una distribuzione del reddito e del patrimonio altamente diseguale, quasi sei milioni in povertà assoluta, giovani che né studiano né lavorano né intraprendono, servizi pubblici inadeguati… Se l’economia italiana non ritrova la via maestra della crescita – la questione che ricomprende tutte le altre – non solo le ferite della società non verranno sanate, ma l’Italia repubblicana e antifascista, la sua democrazia, saranno in serio pericolo.

Idealmente, i governi della Repubblica dovrebbero fare ciò che per decenni, da destra come da sinistra, non hanno fatto. Sette cose: risanare la finanza pubblica, tagliando non la spesa sociale ma i favori alle imprese e la evasione delle imposte; attuare un piano di investimenti pubblici ad alto moltiplicatore in infrastrutture essenziali (sanità, messa in sicurezza del territorio, istruzione, ricerca); concentrare tali investimenti nel Mezzogiorno; contrastare le diseguaglianze e soprattutto la vergogna della povertà; riformare il diritto dell’economia e la giustizia; imporre alle imprese la concorrenza; battersi a Bruxelles per una diversa conduzione dell’economia europea, anche con un uso pesante, motivato, del potere di veto. Per parte loro le imprese italiane devono convincersi che non possono continuare a far conto sui facili profitti assicurati da «moderazione» salariale, vuoti di concorrenza, trasferimenti statali, evasione dei tributi, commesse, appalti e concessioni a condizioni di favore per i fornitori. Devono tornare ad affidare la ricerca dell’utile all’accumulazione di capitale, alle innovazioni, alla produttività.

Non si può non essere preoccupati. Il governo in carica e la più gran parte dei media vantano risultati più apparenti che reali. Dissimulano i dati negativi. L’opacità è fitta. Oltre al fatto che l’economia tedesca – per sue specifiche ragioni – va persino peggio di quella italiana, si cita spesso l’aumento dell’occupazione nel Bel Paese. Ma nel 2023 il Pil è salito solo dello 0,9%, molto meno degli occupati (2,1%). La produttività del lavoro, quindi, è ulteriormente scesa. Piuttosto che investire e puntare su innovazione, progresso tecnico e produttività le imprese preferiscono togliersi i debiti e assumere dipendenti che producono poco perché il loro salario resta basso. Genera profitti e viene imposto a lavoratori spesso precari, privi di alternative, poco protetti dai sindacati.

Soprattutto, non pare che il governo abbia una strategia di lunga lena. La stessa spendita per investimenti delle cospicue risorse ottenute dall’Europa per il Piano di ripresa e resilienza non risponde a priorità essenziali, pochi grandi progetti. Si disperde in mille rivoli, con sprechi e ritardi. Le imprese, se sono pervenute a una qualche maggiore consapevolezza delle scelte che loro spettano rinviano le decisioni. E il Pil? Anche quest’anno: zero virgola.