Secondo tutte le maggiori testate giornalistiche Ursula von der Leyen, nel suo discorso programmatico al Parlamento Europeo, ha garantito il supporto al Green Deal, e il timore che il vento di destra che spira in Europa potesse ridimensionarlo è svanito.

È proprio così? Certo, l’affermazione: «Nei primi 100 giorni proporrò un nuovo Clean Industrial Deal» non sembrerebbe lasciare adito a dubbi. Ma è ad altri passi del discorso della von der Leyen che bisogna guardare per essere invece a dir poco perplessi. Per esempio, quando dice che il Green Deal dovrà essere basato su «pragmatismo, neutralità tecnologica e innovazione», sembra di sentire Salvini o la Meloni. Pragmatismo inteso come depotenziare o non mettere in atto le azioni del Green Deal che disturbano potenti lobby industriali, come si è fatto col Nature Restoration Law, con la Direttiva sulle case Green, con il regolamento sugli imballaggi? Neutralità tecnologica e innovazione intese come porte aperte al fantomatico nucleare di IV generazione e alla cattura e stoccaggio sottoterra della CO2, per non disturbare troppo le multinazionali del fossile?

Il tutto in un contesto che sembra essere disegnato dal più acceso dei sostenitori del neoliberismo: competizione, competizione, competizione. Le sue parole sono chiare: «Chi resta fermo resterà indietro. Chi non è competitivo dipenderà dagli altri… La nostra competitività ha bisogno di un forte impulso». E la competitività si promuove con «meno burocrazia e più fiducia… autorizzazioni più rapide». In una parola, mercato assolutamente libero da lacci e lacciuoli delle istituzioni. Sembra sentire gli economisti della Scuola di Chicago. Di questo dovrà tenere conto il Green Deal.

Diversa era la filosofia dietro il Green Deal di cui la stessa von der Leyen aveva parlato nel suo discorso di cinque anni fa, quando fu eletta la prima volta. Il Green Deal originario non orientava l’industria verso le emissioni zero e contro la perdita di biodiversità lasciando il mercato libero e competitivo come solo arbitro, ma attraverso un sistema di regole sviluppate al fine di costruire un sistema economico, sociale e culturale capace di realizzare la transizione ecologica. Transizione che inevitabilmente impone che certe attività produttive, quelle inquinanti, siano abbandonate e altre nuove vengano create. Per questo la filosofia del Green Deal era quella di rendere la vita difficile o progressivamente proibire quelle attività non in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione e di salvaguardia della biodiversità. Se, come dice ora von der Leyen, si deve andare verso un business «più facile e più veloce», con «meno burocrazia e più fiducia», ci saranno invece meno regole e la tanto decantata competitività non permetterebbe alle imprese inquinanti che andrebbero chiuse o riformate di soccombere, perché sono più forti di quelle più sostenibili non ancora consolidate che dovrebbero sostituirle. Si pensi, per esempio, alle aziende della produzione di beni di consumo che dovrebbero almeno in parte trasformarsi in aziende in grado di fare più riparazione e rigenerazione che produzione, per adeguarsi all’economia circolare, uno dei pilastri del Green Deal. Se non si mettono delle regole restrittive sulla produzione, come per esempio imponendo che i prodotti siano facilmente riparabili e che i pezzi di ricambio costino poco, il business delle riparazioni e rigenerazione non potrà mai decollare, o comunque competere con quello della produzione di beni progettati e realizzati per durare poco, di fatto impossibili da riparare. Per questo finora sono stati introdotti dei vincoli, delle regole restrittive.

Nel nuovo corso, invece delle regole, dei vincoli, si intravede il sussidio. Per rendere l’attività in linea con il Green Deal molto più lucrosa, più competitiva, di quella che in linea non è, si annuncia un contributo pubblico, attraverso il “nuovo Fondo europeo per la competitività”.

È il ribaltamento di paradigma: invece di costringere chi opera in danno della società a smettere di farlo, lo si induce al cambiamento a spese della stessa società che fino a quel momento ha subito il danno. Speriamo di sbagliarci.

Infine, c’è il capitolo agricoltura. Con grande orgoglio la von der Leyen lancia il “Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura in Europa”, che riunisce agricoltori, gruppi ambientalisti ed esperti di tutta la catena alimentare”, per predisporre “una nuova strategia per la nostra agricoltura e il settore alimentare”. Ma non c’era già il programma “From Farm to Fork”, una ottima strategia già predisposta da tempo e mai messa in atto? Non è piaciuta alle lobby dell’agricoltura industriale e ora ne facciamo un’altra che le soddisfi?

Vero, allora, che la von der Leyen ha confermato l’impegno nel Green Deal, ma un altro, diverso da quello di prima, molto vicino all’Inflation Reduction Act di Biden, un compromesso con i potentati industriali e finanziari che rende più difficile la realizzazione degli obiettivi originari. Obiettivi più resi difficili da raggiungere dalla scelta di avere una Europa sempre più armata, che comporta risorse tolte al Green Deal e grandi quantità di gas serra che forze armate e guerra aggiungono.