Gran Bretagna, lavoratori poveri in trappola
Contro-storia delle politiche attive del lavoro Nel Regno Unito lo Stato sociale è diventato un Workfare. L’Italia rischia la stessa torsione con la riforma di Cinque Stelle e Lega sul cosiddetto "reddito di cittadinanza", in realtà un sussidio in cambio del lavoro obbligatorio e sgravi alle imprese. Inviato dall’Onu in Gran Bretagna, Philip Alston ha raccontato l’aumento delle povertà e la dipendenza da un sistema fondato sulla sorveglianza. La Corte suprema britannica ha ammesso che l’obbligo al lavoro in cambio di un sussidio rischia di violare l’articolo 4 della Convenzione europea sui diritti umani
Contro-storia delle politiche attive del lavoro Nel Regno Unito lo Stato sociale è diventato un Workfare. L’Italia rischia la stessa torsione con la riforma di Cinque Stelle e Lega sul cosiddetto "reddito di cittadinanza", in realtà un sussidio in cambio del lavoro obbligatorio e sgravi alle imprese. Inviato dall’Onu in Gran Bretagna, Philip Alston ha raccontato l’aumento delle povertà e la dipendenza da un sistema fondato sulla sorveglianza. La Corte suprema britannica ha ammesso che l’obbligo al lavoro in cambio di un sussidio rischia di violare l’articolo 4 della Convenzione europea sui diritti umani
In Italia sono poco conosciute le tecniche di controllo e gestione dei lavoratori poveri adottate in Europa, e negli Stati Uniti, almeno dagli anni Novanta del secolo scorso. Anche per questo il governo Cinque Stelle-Lega riesce a sostenere, quasi senza contraddittorio, che un sussidio vincolato a condizioni molto restrittive, a otto ore di lavoro gratuito a settimana e agli sgravi per le imprese sia davvero un «reddito di cittadinanza». Il ministro del lavoro Luigi Di Maio (M5S) ha sostenuto che questa è una «rifondazione del Welfare». Lo è, nel senso che è il tentativo di trasformare uno stato sociale arretrato e iniquo come quello italiano in un Workfare State: un sistema che vincola i sussidi pubblici all’obbligo del lavoro. L’opposto del «reddito di cittadinanza»: una misura incondizionata perché svincolata dal lavoro.
DAL 2008 A OGGI, tanto più la crisi ha peggiorato le condizioni di vita e di lavoro, tanto più le politiche pubbliche di assistenza e di inserimento al lavoro sono state vincolate all’obbligo di accettare occupazioni intermittenti e non dignitose. In questa torsione del Welfare in Workfare è emersa la morale autoritaria del capitalismo contemporaneo: il beneficiario del Work to welfare (abbreviazione di Workfare) è obbligato a dimostrare di «meritare» l’accesso ai diritti sociali che perdono il carattere universale e diventano «premi» vincolati all’esecuzione di comportamenti predefiniti in base ai quali la burocrazia del collocamento definisce il grado di «occupabilità» di un soggetto. Quello che il governo vuole realizzare in Italia, con qualche decennio di ritardo. In tutti i paesi in cui questo è già avvenuto, è stata documentata la creazione della «trappola della povertà». Sempre più persone restano imprigionate in un circolo vizioso di bisogni non soddisfatti, carenza di proposte serie di lavoro e indebitamento. I progressivi tagli ai sussidi e alle tutele impediscono anche di pagare spese per sanità, riscaldamento e affitto. E si moltiplicano gli attacchi contro un presunto atteggiamento parassitario dei beneficiari dei sussidi.
NEL NOVEMBRE 2018 il rapporteur speciale dell’Onu sulla «povertà estrema» – Philip Alston della New York University – è stato inviato nel Regno Unito dove ha visitato Londra, Oxford, Cardiff, Bristol, Edimburgo, Glasgow, Belfast e l’Essex. Il fatto che l’Onu abbia deciso di inviare qualcuno per raccogliere le testimonianze e le denunce sullo spettacolare aumento della povertà causata dall’austerità e dalle politiche attive del lavoro ha creato un’alluvione di critiche da parte del partito conservatore. I Tories sono responsabili della strutturazione di un sistema addottato già durante gli anni del blairismo tra il 1997 e il 2007, mentre Gerhard Schröder e Bill Clinton realizzavano sistemi paragonabili anche in Germania e negli Stati Uniti.
LO CHOC PRODOTTO dalla bozza del rapporto, la versione definitiva sarà pubblicata nella primavera del 2019, è stato enorme perché ha sfatato il mito per cui la povertà è la realtà quotidiana in altri continenti, non nella «civile» Gran Bretagna. A leggerlo, il racconto è impietosamente realistico e ricorda il mondo di «Io, Daniel Blake», il film di Ken Loach. Alston sostiene che la causa dell’esplosione della povertà non è addebitabile solo ai tagli di quasi 40 miliardi di sterline ai servizi sociali, ma anche a un’«ingegneria sociale radicale» delle prestazioni sociali gestite da una burocrazia sia pubblica che privata. In questa società feroce, dove spuntano giorno dopo giorno le tende degli sfrattati e dei senza casa nelle strade delle città, un ruolo importante è svolto dallo «Universal credit» che, dal 2010, ha raggruppato sei diversi ammortizzatori sociali e ha razionalizzato il sistema di «politiche attive del lavoro» che in Inghilterra, a differenza dell’Italia, esistono da tempo.
ALSTON RACCONTA di casi di persone disabili che, contro le prescrizioni dei medici, sono state obbligate a tornare al lavoro dai centri per l’impiego per evitare il blocco del sussidio. È la condizione estrema a cui possono essere obbligati i poveri che lavorano (working poors) da norme che, sia pure involontariamente, li intrappolano nella scelta tra il dovere al lavoro e l’ossessione paternalistica di chi sospetta che tra i beneficiari del sussidio si nascondano gli approfittatori. Quelli che in Italia, con un linguaggio ignobile, sono stati definiti i «fannulloni che stanno sul divano». La realtà raccontata da Alston è diversa: il sistema di inserimento e riqualificazione dei poveri ha agevolato la produzione di lavori precari. La causa non è la volontà dei poveri di non lavorare, ma la pressione che subiscono, e le sanzioni che affrontano, per accelerare la scelta di un lavoro qualsiasi, nel tempo più breve possibile. Il teorema salta quando non arrivano offerte di lavoro congrue, quando il lavoro termina e non se ne trova un altro, oppure quando il beneficiario dello «universal credit» è costretto per qualsiasi ragione a non lavorare. Emerge la dipendenza di queste persone dal sistema, mentre le sanzioni previste per educarle alla gestione della loro vita in termini «produttivi» diventano un ostacolo all’effettivo godimento dei benefici teoricamente previsti. Non si contano, poi, gli errori, e le vere ingiustizie, dovute da incomprensioni sull’orario dell’appuntamento tra il «tutor» e il povero impegnato in ospedale per la nascita di un figlio; errori tecnici nell’erogazione del sussidio. Sono contestati i ritardi di 6 settimane in media (che possono arrivare a 12) tra l’inizio di un percorso di riqualificazione e l’erogazione del sussidio. Ciò impone ai beneficiari di indebitarsi per sostenere l’acquisto di una lavatrice o di beni e servizi essenziali per i figli.
SONO SCONVOLGENTI i racconti sul ricorso alle banche del cibo gestite da fondazioni no profit. Negli anni della crisi in un paese dove 14 milioni di persone vivono in povertà «relativa», e almeno 1,5 milioni in «povertà assoluta», sono aumentate le famiglie dipendenti dai prestiti che sono costrette a contrarre per sopravvivere senza sussidio. Solo nell’estate del 2018 il Trussell Trust, la più grande «banca del cibo» («food bank») britannica, ha distribuito 650 mila pacchi alimentari, quasi il doppio di quelli distribuiti nell’estate del 2013. Dal 2010 a oggi, negli anni delle riforme neoliberiste, almeno 600 mila bambini sono finiti in povertà. Il problema è che, solo molto difficilmente, i loro genitori riusciranno ad uscire dalla «trappola della povertà». Senza arrivare alle minacce evocate in Italia – dove il governo ha promesso fino a sei anni di carcere ai beneficiari del «reddito» che fanno una dichiarazione falsa sul proprio patrimonio – anche nel Regno Unito le penalità sono severe. Per Alston questo sistema non risolve il problema della povertà, al contrario riesce a «instillare nelle persone la paura e il disgusto per il sistema». Ci sono stati anche processi contro il governo. Nel 2013, ad esempio, c’è stato un procedimento in cui è stato chiesto ai giudici di definire l’obbligo al lavoro come un «lavoro forzato». La Corte suprema britannica non ha riconosciuto una simile violazione, ma ha ammesso che il workfare rischia di violare l’articolo 4 della convenzione europea sui diritti umani. L’obbligo al lavoro, previsto anche in Italia, può essere «ingiusto», «oppressivo», un «disagio da evitare», «un po’ molesto e inutilmente angosciante». Il solo dubbio sulla natura punitiva, e sulla realtà concreta dei lavori a cui i poveri hanno accesso, dovrebbe rimettere in discussione l’intera impalcatura delle politiche attive del lavoro. Anche in Inghilterra, come oggi in Italia, la trasformazione del Welfare in Workfare è stato giustificato dai governi con la necessità di aumentare l’occupazione. Dopo un ventennio di esperienze questa ipotesi è stata esclusa. Tra il 2013 e il 2018 i ricercatori del Welfare Conditionality Project hanno constatato la «mancanza di un cambiamento significativo nello status di occupazione per coloro che seguono questi programmi». Solo «in rare occasioni le persone li lasciano per lavori pagati».
I LAVORATORI POVERI sono forgiati in questo laboratorio politico e sociale. Come i poveri anche le persone che hanno un lavoro, ma non arrivano a fine mese, sono occupate con i contratti a zero ore (senza un orario garantito) o in altre forme di precariato. Le politiche di attivazione le intrappolano, mentre il lavoro è diventato quello di chi cerca nuovi lavori. L’obbligo al lavoro, in cambio di un sussidio, li ha trasformati da disoccupati poveri in poveri al lavoro.
1/ segue
***Una guida per orientarsi tra le nuove parole
Il «Workfare» è l’abbreviazione di «Work to welfare». Indica l’azione dello Stato che valuta e seleziona i soggetti che «meritano» l’accesso ai diritti sociali. Questi ultimi perdono il carattere universale garantito a tutti i cittadini «laboriosi», stabilito in linea teorica dallo «Stato sociale» («Welfare State»). Tali diritti sono trasformati in «premi» vincolati all’esecuzione di comportamenti predefiniti in base ai quali una burocrazia del collocamento che definisce il grado di «occupabilità» di un soggetto.
Una «politica attiva del lavoro» ha il compito di «attivare» individui poveri e disoccupati, trasformandoli in soggetti «occupabili» e disponibili ad accettare l’offerta di lavoro da parte di un’azienda o a mobilitarsi in qualsiasi momento.
Dal 2010 in Gran Bretagna lo «Universal Credit» aggrega sei ammortizzatori sociali diversi. Le indennità si assottigliano quando il beneficiario accetta un lavoro, ma non si fermano improvvisamente, per evitare di «intrappolare» le persone nella povertà. I tagli avvenuti successivamente, e i malfunzionamenti del sistema, hanno precipitato fasce crescenti di popolazione in questa situazione
*** La caccia ai disoccupati in Francia: inchiesta sui centri per l’impiego, seconda parte della contro-storia delle politiche attive del lavoro
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