È un privilegio entrare nel mondo visionario di Graciela Iturbide (Città del Messico 1942) dove la teatralità dei rituali non è mai un’affermazione perentoria. Lo sguardo non cambia quando la fotografa messicana è con gli indiani Seri nel deserto di Sonora, tra i cactus nel giardino botanico di Oaxaca o a Roma, Los Angeles, Jaipur. Il suo modo di vivere e condividere il momento è intimamente connesso con l’idea di un tempo dilatato.

Quanto alle fotografie, non sono mai costruite, come è evidente nella mostra «Heliotropo 37» (a cura di Alexis Fabry con Marie Perennès) alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi (fino al 29 maggio), dove tra le immagini più iconiche non poteva mancare Nuestra Señora de Las Iguanas (1979). Anche sul foglio dei provini, la donna che vende iguana non è che un’apparizione fortuita: con gli animali sulla testa (a mo’ di stravagante copricapo), avanza come una regina nel mercato di Juchitán de Zaragoza. Dei 12 scatti, il secondo è quello scelto da Iturbide. Ieratica, la donna è assorta, proiettata in un orizzonte indefinibile: negli altri fotogrammi ride con una traccia d’imbarazzo.

Vincitrice di vari premi, tra cui l’Hasselblad Award 2008, Graciela Iturbide è la giù grande fotografa latinoamericana e questa mostra alla Fondation Cartier, con 200 fotografie in bianco e nero e una nuova (e rara) serie a colori del villaggio di Tecali, è anche la prima grande esibizione dedicatale in Francia. La accompagna la pubblicazione del libro con l’intervista di Fabienne Bradu, un testo di Eduardo Halfon e il racconto fotografico a colori di Pablo López Luz che inquadra la sua casa-studio, progettata nel 2016 dal figlio, l’architetto Mauricio Rocha, in Calle Heliotropo n. 37, nel distretto di Coyoacán a Città del Messico (da cui il titolo della mostra), a conferma del forte legame tra il suo spazio interno ed esterno.

Da bambina suo papà (è la maggiore di 13 figli) le regalò una Brownie. Nel ‘69, giovane moglie e mamma di tre figli, cosa l’ha spinta a iscriversi al Centro Universitario de Estudios Cinematográficos de la Universidad Autónoma de México, per poi focalizzare la sua creatività sul linguaggio fotografico?
Avrei voluto fare l’università per diventare scrittrice, ma non potei perché la mia famiglia era molto conservatrice. Mi sposai molto giovane. Avevo tre figli, quando per caso, seppi della scuola di cinema e mi iscrissi frequentandola per due anni e mezzo. In quegli anni realizzai due corti, uno dei quali l’ho ripreso in mano di recente: l’intervista al famoso pittore José Luis Cuevas. Lì conobbi Manuel Álvarez Bravo che mi invitò a seguire le sue lezioni e poi a lavorare con lui come assistente. Non sapevo nulla di fotografia ma allora fare cinema voleva dire caricarsi la macchina da presa che era molto pesante, poi c’era la questione delle luci e la necessità di avere degli assistenti. Invece, la macchina fotografica potevo portarla da me, viaggiare per il mondo e per il Messico e fare il mio lavoro. A quel tempo i miei figli avevano 7, 6 e 5 anni: la mattina li lasciavo a scuola, andavo a lavoravo con Álvarez Bravo, poi li andavo a riprendere e tornavo a casa, li facevo mangiare e di notte studiavo.

Parlando di Manuel Álvarez Bravo, come si è evoluta la sua lezione sul concetto di tempo?
Álvarez Bravo mi diceva sempre «Graciela non avere fretta, prenditi il tempo». Si riferiva soprattutto al modo di fotografare. Faceva pochissime fotografie di un soggetto, solo uno o due scatti, non di più. Credo che questa lezione abbia influenzato tutta la mia vita e il mio lavoro. Nel suo studio era appeso un foglio dove c’era scritto «c’è tempo». Quando andavo a trovarlo con i miei amici fotografi di Magnum – Abbas, Ferdinando Scianna e molti altri – e capitava, magari, che loro scattassero tantissime foto al cane che era nel suo terreno, mi diceva «perché così tante foto, Graciela, quando basterebbero uno o due scatti?». Lui si prendeva il tempo per fotografare, ascoltare la musica, leggere. Era un uomo tranquillo, poetico.

Ha affermato che la sua è una fotografia istintiva in cui è presente una forte componente emotiva: curiosità, meraviglia, sorpresa. In che modo considera l’apparecchio fotografico come un filtro tra sé e la realtà circostante?
Ho sempre detto che la macchina fotografica è un pretesto per la cultura del mondo e del mio paese, il mondo stesso. È vero che vedo la realtà attraverso le lenti, ma la fotocamera mi aiuta a connettermi con le persone, a conoscerne la storia, la cultura. Parlo con loro, divido del tempo con loro; naturalmente, leggo anche molto del posto che visito.

Per un certo periodo la fotografia ha avuto per lei una valenza terapeutica. Fotografare ossessivamente gli «angelitos» era un modo per confrontarsi con la perdita di Claudia, sua figlia, morta nel 1970 all’età di sei anni. Quando ha sentito che avrebbe potuto convivere con quel grande dolore senza esserne più travolta è cambiato anche il suo modo di fotografare?
Con la morte di Claudia ero disperata, triste, angustiata e sì, la fotografia è stata terapeutica sia nella fase dello scatto che in camera oscura. Quando nei pueblos vedevo quei bambini nella loro piccola cassa da morto – gli angelitos – sentivo che dovevo fotografarli. Un giorno, nel cimitero di Dolores Hidalgo – che strano solo in questo preciso momento, mentre parlo con te, mi rendo conto che il nome di questo paese, Dolores, era in relazione al mio dolore! – vedendo un signore con il suo bambino o bambina nella cassa gli chiesi il permesso di seguirlo e per fotografarlo. Lui acconsentì, aprì anche la cassa per farmi scattare la foto e fotografai anche la famiglia. Poi lo seguii nel cimitero ma ad un certo punto, nel mezzo del cammino, lui si fermò e si girò verso di me. Mi chiesi cosa stesse succedendo. A terra c’era un uomo che per metà era scheletro e per l’altra il corpo era ancora intatto. Non si sa se fosse stato tolto da una tomba e per quale motivo fosse lì. Sopra c’erano migliaia di uccelli che volavano, suppongo per mangiare la sua carne. In quel momento ho sentito che la morte mi diceva che dovevo smettere di fotografare gli angelitos, perché quell’assurda terapia mi faceva soffrire. La macchina fotografica è come la prosecuzione del nostro sentimento. Ti dice cose hai nell’animo e nel cuore: sogni, crisi, dolori. Da quel momento smisi di fotografare la morte e cominciai a fotografare gli uccelli, però il mio sguardo si è spostato dagli uccelli della morte a quelli della vita. Ero molto influenzata da scrittori sufi come Attar con il suo libro La lingua degli Uccelli o Juan de la Cruz, autore di una poesia sul passero solitario che è molto piccolo e vola alto, non ha un colore definito e canta soavemente. Mi interessava la libertà degli uccelli. Non sono credente, ma mi piacciono molto i mistici.

Nel cogliere la straordinarietà del quotidiano anche a Roma, dove nel 2007 – lasciandosi guidare dalle parole di Pier Paolo Pasolini – realizzò un lavoro per il festival FotoGrafia, l’incontro e l’empatia sono essenziali quanto il camminare. Ci sono anche altri elementi che entrano nella sua poetica?
Certamente. Ci sono le mie letture, la musica che ascolto, le mostre che vedo, l’influenza di altri fotografi… A Roma, visto che amo molto Pasolini – ho letto i suoi libri e visto i film, ma di lui quello che mi piace è soprattutto il suo essere anarchico – decisi che sarebbe stato lui la mia guida spirituale. Girai la città, ma il posto che emozionò veramente è ad Ostia dove è stato ammazzato, non sappiamo se per un delitto passionale o politico. Vi tornai più volte, mi colpirono le tante palme che erano lì vicino, incappucciate con dei teli e per me – credo che l’immaginazione sia importante per un fotografo – erano come boia.

Riguardando oggi i suoi lavori più emblematici, come il libro «Juchitán de las mujeres» (1979-1989) dedicato alle donne e alla cultura precolombiana degli Zapotechi, in cui il lirismo contemplativo rende la sua fotografia distante dalla pura documentazione, sovvertendo contemporaneamente certi stereotipi della rappresentazione del Messico, prova un senso di rimpianto per un mondo autentico in parte scomparso?
Juchitán è uno dei luoghi in cui ho fotografato di più perché ci ho vissuto, trascorrendo molto tempo con la gente. Avevo il permesso di fotografare tutto perché il mio «padrino» era il pittore Francisco Toledo che era di Juchitán. Lui mi invitò lì, perciò la gente mi accettò facilmente. L’intenzione non era fotografare solo le donne ma ogni cosa, ma la scrittrice Elena Poniatowska – autrice del testo nel libro – vedendo la grande presenza femminile decise di dargli questo titolo. Juchitán ha la fama di essere un matriarcato. In un certo senso lo si può considerare proprio così, perché effettivamente le donne gestiscono l’economia del paese. Gli uomini lavorano ma è alle donne che affidano i soldi e loro li ripartono. Ma se si parla loro di matriarcato non lo capiscono, perché è una parola e un modo di pensare molto occidentale. Sì, Juchitán è cambiata, ma non provo un senso di tristezza. Certo, la gente usa il cellulare per comunicare e fotografarsi, ma nell’essenza ci sono delle cose invariate. Si parla la lingua zapoteca, si va al mercato e le donne gestiscono sempre l’economia. Ma, soprattutto tra i giovani, c’è la consapevolezza dell’importanza di preservare l’identità culturale.