Si chiama galleria Bombi, si trova nel pieno di centro di Gorizia, in piazza Vittoria. Buca il colle sopra il quale svetta il castello della città, costruito nel secolo XI. Si gode di una vista incantevole dalle sue mura. Ma è quello che c’è sotto che bisogna portare alla luce. Nella galleria.

Centinaia di migranti ci vivono, se così si può dire, da mesi. Sono soprattutto persone che arrivano da Pakistan e Afghanistan. Sgomberati dal parco di Valletta del Corno, anch’esso dentro la città, si sono sistemati davanti alla prefettura, in piena piazza Vittoria. Ci hanno dormito per una decina di giorni, fino a quando non è stato deciso di spostarli, nella galleria appunto, a cavallo di Ferragosto. E da lì non si sono più mossi.

«C’è un continuo via vai di persone – spiega Andrea Picco, consigliere comunale d’opposizione, eletto per il Forum di Gorizia – che vengono anche perché qui c’è la commissione che avvia le pratiche per la richiesta di asilo e i documenti per essere considerato rifugiato. Dicono sia una di quelle più veloci a svolgere le pratiche, questa di Gorizia. Quindi oltre a essere il rifugio di chi è appena arrivato, magari attraverso la rotta balcanica, altri restano perché in attesa dei documenti».

IL SINDACO Rodolfo Ziderna, Forza Italia, sostiene che «queste persone non devono stare qui, bisogna portarle in altri luoghi». Alla richiesta dell’opposizione di mettere loro a disposizione almeno dei servizi igienici, il primo cittadino ha replicato che rendere più confortevole la loro permanenza attirerebbe altri migranti. «Farli stare male dovrebbe essere un deterrente – commenta Picco – ma tanto ci vengono ugualmente per sbrigare le pratiche quindi è un discorso che oltre che essere disumano, non ha senso».

Così i bisogni, sono costretti a espletarli all’aperto, tra i cespugli e gli alberi del promontorio che porta al castello. L’unica fonte d’acqua è data da una fontanella che però venerdì 10 novembre è stata chiusa.

Arrivando dal parcheggio prospiciente piazza Vittoria, la scena che ci troviamo di fronte è surreale. Dal buio del parcheggio si scorge già la galleria, all’interno si intravedono le sagome delle persone in piedi. Sono tutti messi sulla destra, a sinistra infatti corre la pista ciclabile, che i cittadini continuano a utilizzare.

Gli unici che danno conforto a queste persone sono quelli che qui chiamano «i volontari». Persone che di fatto si sono ritrovate nell’aiutare queste persone e che ogni sera vanno a fornire loro qualche conforto. «Una rete di persone che si è messa insieme usando Facebook e WhatsApp. Poi ci siamo coordinati in modo da unire le forze e cercare di dare una mano a queste persone», racconta Roberto, settant’anni. Lui si occupa di tenere pulito, fa lavoretti di quella che potremmo definire manutenzione, ma è improprio il termine. «Tutto quello che vedi – racconta – è stato donato da persone che non possono accettare di vedere altri esseri umani in queste condizioni».

Ci sono coperte sopra pezzi di cartone. I più fortunati hanno dei materassi vecchi. Le infiltrazioni d’acqua, che scendono dalle pareti di roccia, rendono umidi questi giacigli di fortuna. L’aria fredda che attraversa la galleria fa il resto. All’inizio di questa fila interminabile di coperte hanno sistemato una piccola paratia di legno che dovrebbe in qualche modo limitare il flusso di aria fredda. Qui c’è la bora, non si scherza.

Fa molto freddo, visto anche il periodo dell’anno, e non può che peggiorare con l’inverno alle porte. Quando sono le 19 e 30 arrivano polizia e carabinieri per controllare i documenti. Chi non li ha viene condotto in questura per le impronte, operazione che dura almeno un paio d’ore. «Almeno lì fa caldo», scherza un giovane pakistano. È una procedura consolidata, tutto si svolge con un meccanismo quasi automatico.

I VOLONTARI arrivano verso sera. Sono una decina di persone, donne e uomini di età compresa tra gli ottanta e i tredici anni. Stefania frequenta la terza media e viene qui semplicemente perché, dice, «mi piace aiutare gli altri». Rita invece di anni ne ha ottanta. Si rivolge ai migranti in inglese, li fa mettere in fila e serve il cibo che lei stessa ha cucinato. Lo fa tutte le sere.

Nel gruppo di coloro che hanno portato cibo e thé caldi due sono stati minacciati. «Erano giovani di Gorizia, frequentatori di CasaPound. Li abbiamo denunciati alle autorità perché le minacce erano brutte e concrete. E sai perché? Perché aiutiamo gli stranieri. Ma io qui non vedo stranieri, vedo solo esseri umani». C’è anche un presidio medico. Su un tavolo da campeggio sono appoggiate scatole di farmaci, soprattutto per curare malattie di stagione.

«I più – spiega il dottore che ogni giorno va a visitarli – hanno questo tipo di problemi. Se constato che c’è qualcosa di più rilevante, chiamo la Croce Rossa. Quelli che sono appena arrivati invece, come il ragazzo che vedi qui seduto a piedi scalzi, hanno ferite ed escoriazioni ai piedi. Hanno camminato, spesso con scarpe non adatte o addirittura senza, e i risultati sono questi».

Quando gli chiedo se è in pensione, la sua risposta è semplice: «Se questo è inteso come non andare più in ospedale, questo sì, se invece si intende come modo di essere, un medico lo è sempre, e non può stare fermo di fronte alle emergenze».

LE STORIE di queste persone hanno passaggi comuni, uno è l’attesa dei documenti. Sembrano quasi rassegnati al fatto che qui sotto, nella galleria Bombi, ci dovranno restare per un bel po’. Quando mi rivolgo a loro per sapere come vivono questa condizioni, come si sta sotto una galleria, quelli appena arrivati fanno intendere che intendono la Bombi come un luogo sicuro, dove possono restare insieme senza temere che possa succedere qualcosa di brutto che magari hanno già vissuto lungo il viaggio. Quelli che sono qui da più tempo invece si sentono come in trappola, e ne soffrono evidentemente.

Questa di Gorizia non è l’unica storia di disperazione che colpisce i migranti in Friuli Venezia Giulia. C’è stato lo sgombero del Silos di Trieste dove stavano davvero in tanti, o le denunce a Udine ai danni di chi offriva coperte o aiuti a chi si trovava in strada. Ma è storia di questi giorni quella di un uomo, Karnail Singh, che a Pordenone ha perso la vita. La voce che circola è che volesse tornare indietro, in Pakistan, ma fosse rimasto senza soldi. A Pordenone queste persone sono costrette a stare per strada, in zona Comina, da parecchie settimane. Ed è lì che è morto Karnail, di stenti e di freddo.