Un nuovo colpo di mano dei militari scuote il Sudan e agita le cancellerie mondiali, con particolari preoccupazioni per quel che ora potrà accadere nelle strade, oltre che nei palazzi del potere, con l’azzeramento della componente civile del governo di transizione nato due anni fa, dopo la destituzione di Omar al Bashir.

Ieri mattina sono finiti agli arresti il primo ministro Abdalla Hamdok, trasferito con la moglie in una località ancora misteriosa, il ministro dell’Industria Ibrahim al Sheikh, quello dell’Informazione Hamza Balou, il consigliere per i Media del premier, Faisal Mohammed Saleh e altri.

NELL’ELENCO figura anche il portavoce del Consiglio sovrano, Mohammed al Fiky Suliman, membro civile di questo organo collettivo con funzione di capo di Stato, formato da 5 civili, 5 militari e un presidente “alternato”, che in base agli accordi a breve avrebbe dovuto cambiare di segno, con il passaggio della poltrona di presidente dal generale Abdel Fattah al Burhan a un civile.

 

Il generale Abdel Fattah al Burhan, capo del Consiglio sovrano sudanese (foto Ap)

 

E invece. È stato proprio al Burhan ad annunciare ieri in tv lo scioglimento di governo e Consiglio, insieme alle misure classiche di un golpe militare: stato d’emergenza, Costituzione sospesa, aeroporti chiusi, capitale sigillata, telefoni silenziati e web oscurato. Con la risibile assicurazione che un nuovo governo, composto da persone «competenti», arriverà presto per portare il Paese alle elezioni e ripristinare l’ordine democratico.

ABBASTANZA perché le Forze per la libertà e il cambiamento (Fcl), la coalizione eterogenea della società civile e dell’ex opposizione che da due anni tiene testa ai militari nella guida del Paese, chiamassero la gente in strada a difesa di quel che rimane dello loro rivoluzione. In prima fila i medici e le altre associazioni professionali che furono già anima del movimento a cui si devono sia la fine del trentennale potere di al Bashir, con una lunga serie di manifestazioni sfociate spesso nel sangue, sia i risultati del difficile negoziato condotto all’indomani con i militari.

 

Khartoum, 25 ottobre, la protesta contro il golpe militare (Ap)

 

Le forze di sicurezza hanno represso le proteste con gas lacrimogeni e proiettili. Nella capitale Khartoum e nella città gemella di Omdurman fonti mediche parlano di almeno 3 morti e 80 feriti. Ma resta difficile verificare, con il black out delle comunicazioni in atto.

SENZA CONTARE CHE un mese fa si era parlato di un tentativo fallito di colpo di stato da parte degli apparati dell’esercito ancora legati ad al Bashir, preoccupati forse dalle pressioni crescenti per la consegna dell’ex presidente alla Corte penale internazionale, i segnali che qualcosa stava per accadere erano già evidenti da almeno una settimana, con manifestazioni di segno opposto nelle strade e crescenti tensioni all’interno del governo.

Anche sotto l’ombrello comune delle Flc si è consumata la frattura tra chi continuava a difendere l’esecutivo così com’era e chi era tornato in strada ancora venerdì scorso, al termine della preghiera, per invocare una soluzione come quella adottata ieri dai militari. Prendendo a pretesto una crisi economica che malgrado gli sforzi e le mosse anche spregiudicate per riportare gli investimenti internazionali nel Paese non ha mai smesso di mordere.

CALA COSÌ IL SIPARIO sull’esperienza travagliata del governo Hamdok, che all’epoca, di fronte alla prospettiva di una transizione gestita esclusivamente dai generali era sembrata una vittoria della società civile, che non voleva farsi scippare l’esito di una mobilitazione costata sacrifici e vite umane.

Ieri sono piovute unanimi le condanne sul golpe, in testa Usa, Cina, Unione europea, Lega araba e Unione africana. Con l’invito rituale quanto surreale, per come si sono messe le cose a Khartoum, a riprendere il dialogo.