Il 4 maggio 1980, a Lubiana, moriva Josip Borz, il maresciallo Tito. Il leader della lotta partigiana contro l’occupazione nazi-fascista, il padre della Jugoslavia, che fino alla sua dissoluzione sanguinosa è stata per decenni la porta girevole tra i blocchi, il miglior passaporto del mondo, quello che permetteva di andare a Washington e a Mosca.

Non è sempre stato così, però. Subito dopo la guerra, per un periodo, la leadership di Tito è stata meno salda, in particolare dopo la rottura con Mosca del 1948. Ed è il quel periodo storico che si inquadra la vicenda dei confinati politici di Goli Otok.

Foto Christian Elia

 

Il traghetto avanza lento, girando attorno all’isola, prima di trovarsi di fronte una piccola baia. A sinistra un ristorante, a destra un improbabile bancarella, dove è possibile farsi una foto con il cartonato di un vestito a strisce da detenuto.

Benvenuti a Goli Otok, l’isola nuda, tre chilometri per tre. Quasi uno scoglio nell’Adriatico, che dal 1949 al 1957, però, diventò un buco nero. E per certi versi lo è ancora. L’associazione Documenta è, come si definisce, un centro di ricerca per fare i conti con il passato. Nelle repubbliche della ex-Jugoslavia non è sempre facile, la Croazia non fa differenza. Accompagnare dei viaggi della memoria all’isola di Goli Otok è parte delle loro attività.

Foto Christian Elia

 

«All’epoca della rottura con l’Urss anche Tito era debole, non aveva ancora il controllo totale e molti alti dirigenti non erano d’accordo con la sua decisione. Goli Otok divenne una naturale conseguenza di questa fragilità. Il nostro obiettivo, oggi, è impedire che questo posto diventi un’attrazione turistica fine a se stessa, come Alcatraz, o che diventi l’ennesimo resort turistico delle isole croate. Al momento, nessuna istituzione è realmente interessata a prendere una decisione», racconta Boris Stamenic, coordinatore per Documenta dell’area della cultura della memoria.

Dopo la Seconda Guerra mondiale, la Jugoslavia guidata dal maresciallo Tito rompe i rapporti con Mosca. Il Cominform, l’organizzazione che riuniva i partiti comunisti europei, guidata dall’Urss, nel 1948 espelle Belgrado per insanabili divergenze ideologiche. In Jugoslavia si radica l’idea di non essere al sicuro da un attacco esterno. A farne le spese i cosiddetti ‘cominformisti’, che era poi un modo per definire i militanti comunisti – jugoslavi e non – fedeli alla linea di Stalin.

Foto Christian Elia

 

Goli Otok diventa l’isola prigione per loro. La vicenda storica di quegli anni ha prodotto tanta memorialistica. Tra tutti i testi che si possono reperire, di sicuro, un posto di riguardo spetta a Giacomo Scotti, scrittore e giornalista italiano che dalla fine della Seconda Guerra mondiale emigrò in Jugoslavia seguendo i suoi ideali, ma capace poi di essere un testimone indipendente delle varie fasi del Paese. Sulle sue tracce, tanti giovani storici hanno iniziato a confrontarsi con il tema.

«Della repressione dei cominformisti si cominciò a parlare diffusamente negli anni Ottanta, complice la crisi ideologica vissuta dal socialismo jugoslavo in quel periodo. Testimonianze su Goli Otok hanno continuato ad essere pubblicate negli anni, ma l’interesse non è tale da determinare un vero e proprio intervento sul sito. In generale, questa situazione si spiega con il processo di “nazionalizzazione della memoria” che ha seguito la transizione e le guerre jugoslave. Se prima erano ricordate quasi esclusivamente le vittime del nazifascismo, con la guerra si impongono definitivamente narrazioni nazionali sostenute dalla commemorazione esclusiva delle vittime della propria nazionalità nel corso della storia», spiega Marco Abram, storico, che lavora con Osservatorio Balcani Caucaso.

Foto Christian Elia

 

Dall’ingresso dell’isola si dipanano un paio di strade che ruotano attorno alla costa. Su quel piazzale avveniva, secondo le memorie dei sopravvissuti, il rituale dello stroj, il benvenuto, con i detenuti veterani costretti a picchiare i nuovi arrivati, come a ribadire una ‘redenzione’ in corso.

Gli edifici, per quanto segnati dall’abbandono e dalle intemperie, sono ancora là. Secondo le stime, impossibili da verificare fino in fondo, essendo la gestione dell’isola affidata al tempo alla UDBA, la polizia segreta jugoslava, furono almeno 500 le vittime, ma secondo altre molte di più, tenendo conto di chi è morto qui o in seguito per gli stenti patiti. Tra loro anche degli italiani.

Foto Christian Elia

 

«In Italia, la memoria di Goli Otok si è affermata in modo piuttosto inedito, soprattutto a causa dell’esperienza dei cosiddetti monfalconesi (operai dei cantieri navali di Monfalcone che dopo la guerra scelsero il socialismo jugoslavo ndr) – racconta Abram – Delle migliaia di migranti che si spostarono dall’Italia alla Jugoslavia nel dopoguerra, a Goli Otok ne finirono alcune decine. Tuttavia, Goli Otok spesso finisce integrata nella narrativa sulle Foibe e sull’Esodo, suggerendo che si trattò di un ulteriore persecuzione contro gli italiani, piuttosto che il prodotto di un duro scontro ideologico. In realtà il ruolo del fattore nazionale nella repressione fu limitato. Innanzitutto, di rado viene ricordato come la aperta opposizione della parte più politicamente attiva dei “monfalconesi” fu in grado di mettere in grossa difficoltà le autorità jugoslave, che – quantomeno inizialmente – cercarono un compromesso, passando solo dopo qualche tempo a metodi più duri. Inoltre, se la maggior parte dei lavoratori rientrò gradualmente in Italia, non mancarono coloro che decisero di restare, accettando le posizioni titoiste».

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La vita dei prigionieri politici era scandita da tre impianti: lavorazione del legno, dei metalli e delle pietre. Si, le pietre. Tutto attorno, tra gli arbusti e gli alberi, Goli Otok è formata da sassi lisci, levigati dal vento che batte furiosamente l’isola e che le è valsa il suo nome. I detenuti, in una sorta di castigo di Sisifo, prendevano queste pietre, le lavoravano. Così hanno costruito i loro stessi alloggiamenti.

Alle circa otto ore di lavoro al giorno, a seconda delle capacità psicofisiche, si alternavano momenti pubblici di confronto ‘ideologico’ e interrogatori. Tra i sassi che si sono fatti edifici, oltre agli alloggiamenti per detenuti e sorveglianti, spiccano il bowling, che serviva ai guardiani per ammazzare il tempo e  il famigerato reparto 102, isolato, per gli ‘agitati’, o la fossa 101, per i detenuti in isolamento.

Il giro continua, tra edifici ancora in piedi e edifici successivi, quando dopo la metà degli anni ’50 i detenuti politici – complice la morte di Stalin e la normalizzazione delle relazioni con l’Urss – sostanzialmente i detenuti politici vennero rilasciati. Divenne un riformatorio per giovani complicati, con scuola e avviamento al lavoro, attivo fino al 1988.

Foto Christian Elia

Ed ecco che, lentamente, iniziò l’oblio. Documenta si batte perché questo non avvenga, qui e altrove, ma il turismo incalza, però, mettendo a rischio tutto questo. E sui progetti di turisticizzazione non si fanno grandi misteri. Già nel 2015 prima e nel 2018 dopo si è tornati a parlare con insistenza di progetti di riqualificazione. Senza memoria. Il 31 maggio di quest’anno si è concluso il periodo di pre-tutela statale della località e la decisione del Ministero della Cultura non è ancora stata presa.

Un gruppo di persone, legate all’associazione Ante Zemljar di Zagabria, dedicata al poeta partigiano che conobbe la reclusione sull’isola, che riunisce parenti di vittime e di detenuti di Goli Otok, accende delle candele e richiama l’attenzione di media e opinione pubblica sulla preservazione di questo luogo.

«Il problema è che a nessuno interessano queste persone – racconta Bozo Kovacevic, figlio di un detenuto politico, volto noto della politica croata, ex ambasciatore in Russia – Per cominciare non sono classificabili secondo le divisione etno-confessionali di oggi: non sono cattolici, ortodossi o musulmani. Erano comunisti. E sfuggono quindi anche ai profili di perseguitati del comunismo su cui si concentra la narrazione dei paesi del blocco. Perché erano più comunisti dei loro persecutori. Infine ci sono i nostalgici della ex-Jugoslavia, che si basano sull’effettiva differenza che esisteva con altri paesi del blocco, ma che non amano ricordare gli anni duri. Sono persone che sono finite qui per le loro idee, che hanno sofferto per restare fedeli a quello in cui credevano e per il quale avevano combattuto il nazi-fascismo. Dimenticare sarebbe come condannarli di nuovo».