«Vi auguro una traversata o un’immersione turbolenta; forse, a lungo andare, raggiungeremo perfino la riva, trasformati ma ancora vivi … però questo si vedrà, perché ci stiamo avventurando in acque inesplorate». Come subacquea, scrive di sé stessa la psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour nel suo volume Blues a Teheran (Raffaello Cortina, pp. 238, euro 18, traduzione di Francesco Peri), non è molto esperta eppure sa nuotare piuttosto bene. È questa la premessa di un libro luminoso e profondo, composto con dedizione e ascolto, la cui scrittura «si basa sulla libera associazione, come in una seduta di psicoanalisi».

Il segno dell’aneddoto raccontato è colto tuttavia nel titolo: un genere musicale che si confà al turbamento, alla depressione, alla malinconia e alla tristezza, non dimenticando che si tratta anche un ballo, in cui si celebra il trasporto e il piacere, la vita. Sta di fatto che quando Homayounpour – ospite oggi a Roma nell’ambito di «Libri Come» in conversazione con Lorena Preta (alle 12:30, Spazio Risonanze), e fondatrice del Gruppo freudiano di Teheran, oltre a fare parte della International Psychoanalytic Association, della American Psychoanalytic Association e della Società psicoanalitica italiana – decide di andare ancora più a fondo, nelle varietà di blu, ha presente l’Isfahan Blues di Duke Ellington (1967).

LA CONGIUNZIONE non appare peregrina, considerato che «il blues, come la psicoanalisi, abita i margini: sia l’uno sia l’altra fanno parlare le anime del sottosuolo». Con tutti questi elementi, disponendosi a seguire le note nella loro improvvisazione la dove c’è musica ma non melodia, Homayounpour ci introduce al tema del volume: il lutto. E quanto la sua esperienza appartenga a un territorio interrogabile anche dalla psicoanalisi – «in assoluto – chiosa l’autrice – il discorso poetico che preferisco».
La prima delle storie condivise, dei e delle sue pazienti, appartiene però a lei: suo padre perde la vita mentre si trova sul lago Lemano, a Ginevra. Lei lo apprende dalla madre ma di quella sera, di sette anni prima, non ricorda granché. E quando ci ritorna con la mente, nonostante il tempo trascorso, il linguaggio non la assiste, fa cilecca, ricorda l’odore della stanza ma il filo delle parole si spezza.

SA BENE tuttavia il dolore che ha provato distesa sul pavimento del suo bagno, quella stessa notte, e anche della sensazione – che è anche una condizione dell’umano davanti all’ineluttabilità della perdita dei propri cari – secondo cui tutto è in trasformazione mentre il mondo ingiustamente sembra non curarsene, le cose in particolare sembrano indifferenti.
Di separazione e di sintomi (che hanno sempre «un risvolto difensivo» e forse sono modi «per fare del nostro meglio») Homayounpour riflette a partire dalla storia di M. Aveva 14 anni quando l’Iran entra in guerra con l’Iraq e, per scampare al servizio militare obbligatorio, viene inviato dal padre in un collegio. Arrivato a Istanbul nota un arrossamento scaglioso sul ginocchio, il primo episodio della sua psoriasi che lo accompagnerà diffusamente da lì in avanti.
Al pari delle cellule cutanee che accelerano il ritmo, come «una collettività impreparata e immatura», morendo e trasformandosi in placche e croste, l’esperienza della separazione è stata prematura. Questo «lutto incompiuto» è uno dei mali dei blues, è un cortocircuito epidermico per evitare a M. di restare senza pelle.

LO SFONDO STORICO della guerra così come della rivoluzione e delle conseguenze nelle vite delle persone non si ferma a un singolo incontro, pervade a diversi livelli la riflessione di Homayounpour, che non solo prende parola sull’attualità, ad esempio sulla narrazione della migrazione e «sull’abbandono», in particolare da parte degli agfhani, dell’Iran, ma scandaglia altri paraggi arrivando poi alla discussione di alcune idee stereotipate che concernono altri blues: quello intorno alla maternità è tra i più interessanti, e anche qui il contatto è di carattere personale perché riferisce della nascita di Darya, che in persiano significa «mare», e di come ciascuna madre, lei compresa, si trovi dinanzi a sensi di colpa e altri sentimenti tenuti fino a lì a bada, anche con anni di analisi.

Nel volume, gli inserti cinematografici, letterari e poetici sono numerosi (di notevole grazia e interesse quello dedicato a Forugh Farrokhzad), concorrendo a una indovinata e brillante commistione tra la clinica e le risorse a disposizione. Non sorprenderà dunque la rilettura delle Mille e una notte: «Forse della madre e delle figlie di Shahrazad non si parla mai perché la narratrice se le porta dentro: perché coincide con loro». Altre qualità di blues sono quelle che la psicoanalista rintraccia in autori e autrici quali Dostoevskij (suo riferimento prediletto), Duras e Kristeva, ma anche Borges e Kundera, nella maestria, per qualcuno di loro, di aver saputo riportare nella scrittura la parola della sofferenza, del dolore e del perdono. Infine della precocità che alcune forme di tristezza assumono. Ciò nonostante, il blues ha la possibilità «di un aldilà improntato al piacere», una resistenza all’istinto di morte.

«Ho elaborato il lutto quando ho scoperto come amarti davvero; c’è troppo odio nella malinconia». L’amore è dappertutto, in questo libro che può essere letto come una lunga e a tratti commossa lettera di Gohar Homayounpour al padre e a sé stessa. Altrettanta è l’acqua, e il suo colore. Inconfondibile nelle declinazioni persiane, e immaginato anche ad altre latitudini, come accade in una poesia di Ghiannis Ritsos: «Mio blu – dicevi -/ mio blu./ Lo sono./ E anche più del cielo./ Ovunque tu sia/ io ti circondo».