«Il principio del governo di maggioranza non giustifica la legislazione di una norma costituzionale che impedirebbe in modo così radicale la sorveglianza e il vaglio critico di una decisione del rango eletto», così si è espresso Esther Hayut, presidente della Corte suprema.

Con una sentenza di 743 pagine senza precedenti il primo gennaio la Corte suprema israeliana ha invalidato l’emendamento alla Legge fondamentale che annullava la cosiddetta «clausola di ragionevolezza» rispetto alle decisioni del governo e dei ministri. La sentenza, approvata da otto membri su 15, ha stabilito che la Corte detiene l’autorità di pronunciarsi sulle Leggi fondamentali che in Israele fanno sostanzialmente le veci della costituzione.

La maggior parte dei giudici ha dunque stabilito che una Legge fondamentale non può ledere le caratteristiche che stanno al cuore dell’identità di Israele quale stato ebraico e democratico. Una simile norma costituirebbe un’eccezione da parte del potere legislativo e come tale va annullata.

CIÒ CHE LA SENTENZA mira a impedire è la facoltà della Knesset, il parlamento, di legiferare ogni provvedimento sotto il titolo di Legge fondamentale con il rischio che l’approvazione della maggioranza di 61 membri diventi sufficiente per renderlo immune dall’ingerenza e dal vaglio del potere giudiziario. Nel caso di specie, l’annullamento della clausola di ragionevolezza, approvato l’estate scorsa dalla coalizione, avrebbe leso gravemente la divisione dei poteri e l’autorità della legge israeliana.

Con la promulgazione di questa sentenza la Corte suprema afferma implicitamente di collocarsi su un gradino più alto rispetto al potere legislativo del parlamento e non c’è quindi da stupirsi se sia stata accolta con profonda ostilità, in particolare dal ministro della giustizia Yariv Levin, membro del Likud e principale architetto della famigerata riforma giudiziaria che nei mesi precedenti al 7 ottobre aveva trascinato Israele sull’orlo di una vera e propria guerra civile. Reazione di sdegno anche da parte del ministro delle finanze Bezalel Smotrich che ha definito la sentenza estrema e provocatoria, e la Corte suprema priva di competenza.

Tra le maggiori critiche vi sono il mancato rispetto della volontà della maggioranza in contrasto con il risultato delle elezioni, ma soprattutto il timing. Riportare l’attenzione del paese sulla questione della riforma giudiziaria creando faide e dissensi mentre la guerra è ancora in corso lederebbe lo spirito unitario che l’azione militare richiede. In generale, tuttavia, le autorità governative hanno invitato a rispettare la sentenza e ad abbassare i toni evitando l’incitamento contro la Corte.

Soprattutto dalle decine di migliaia di israeliani, che da un anno a questa parte protestano senza sosta contro il governo Netanyahu, la sentenza è stata accolta come un importante passo per preservare la democrazia israeliana e impedirle di sprofondare nel precipizio dell’abisso scavato dalla coalizione. Insomma una piacevole sorpresa in tempi bui.

DEL RESTO, il tentativo di rimandare ogni questione al termine della guerra non ha retto di fronte alla rabbia e all’esasperazione dei cittadini e alla pressione dell’opinione pubblica rispetto al ritorno degli ostaggi che con il passare delle settimane sembra sempre più un miraggio.

Così, sebbene il trauma del 7 ottobre avesse in parte ricompattato la società, nelle ultime settimane gli israeliani hanno ripreso a manifestare anche per le dimissioni di Netanyahu. Mentre Israele si barcamena tra l’accusa di genocidio e il rischio sempre più concreto di un allargamento del conflitto anche sul fronte nord, la necessità di una leadership affidabile e competente è una priorità proprio a fronte della criticità del momento.

Benché la strada sia ancora tutta in salita, la sentenza costituisce un traguardo importante, un monito che mette dei paletti a Netanyahu e al suo sconsiderato governo. Nel frattempo, se Levin non ha ingoiato il rospo e ha promesso una reazione dichiarando che la partita è ancora aperta, la sfida principale di Israele rimane l’ostinazione rispetto al binomio di stato «ebraico e democratico», due caratteristiche che fino a ora hanno prodotto drammi e contraddizioni non indifferenti.