Doclisboa ha i suoi luoghi di proiezione in tutto il centro cittadino. Dalla piccola sala d’art et d’essai L’ideal, nella città vecchia, all’elegante cinema palace Sao Jorge, sull’immenso boulevard de la Liberdade. Senza dimenticare la Cineteca portoghese. Ma il cuore di questo festival di cinema fuori dal coro non poteva che essere eccentrico. È il Culturgest. Per farsi un’idea di questo strano edificio, bisogna immaginare un castello gotico costruito con il vetro e il cemento. E un interno monumentale, con i marmi, gli ottoni e la tappezzeria ad evocare una grandeur moderna eppure già remota o forse solo fantasticata di un’atlantide novecentesca. Sono spazi impossibili da riempire. Anche quando le sale sono piene, come per la serata di apertura o per alcuni spettacoli particolarmente attesi, si ha sempre l’impressione di essere finiti per sbaglio nell’Overlook hotel.

UNA DI QUESTE occasioni è stata la proiezione del film Gorbachov. Paradiso – un documentario intervista con l’ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico, presentato nella sezione «Dalla terra alla luna». L’intervista è più frammentaria di quella che Herzog ha realizzato nel 2018, e nella quale viene ricostruita tutta la vita del leader. D’altro lato, il regista Mansky osa spingere Gorbachov nell’angolo, mentre Herzog ossequioso cercava piuttosto di trovargli delle vie d’uscita. Il leader novantenne è affaticato e malato. In una scena che è senza dubbio la più impressionante del film, la pelle del braccio comincia improvvisamente ad aggrinzirglisi, nel giro di qualche istante, delle piaghe si sviluppano ed avanzano fino al polso, come fosse l’eroe di un Marvel vittima d’un sortilegio. Eppure Mikhail Sergeevic non ha perso nulla della sua lucidità. Uno dei primissimi scambi è intorno al problema: la Russia è per natura destinata a ritornare a forme non libere di governo? Mansky pensa di sì, e cita il poeta: «Nel profondo delle mine siberiane, soggioghiamo il nostro orgoglio…» «No ! No ! » – lo corregge prontamente Mikhail – Soggiogate… Questi versi non sono rivolti a noi!»

IL PARADISO può attendere. Dal 25 dicembre 1991, data in cui sotto la pressione di Elsin rassegna le dimissioni da leader dell’Urss, Mikhail è un uomo abitato dal sentimento di aver perso la sua occasione. E a nulla vale il cumulo dei successi. Sarà sempre colui che ha distrutto l’Urss. Con la beffa di essere adorato in Europa, per lo stesso motivo per cui è detestato in Russia. La sua posizione è dappertutto impossibile. Gli uni lo considerano un eroe per una cosa che lui non voleva fare (distruggere l’Urss). E gli altri lo prendono per l’autore di un risultato che lui, con le sue riforme, aveva cercato di scongiurare (la fine del socialismo reale). «Sei un democratico, Mikhael Sergeevic ? – Sono un socialista. E c’erano altri socialisti, nel Politburo ? C’ero io ! E ce n’erano degli altri ?». Silenzio.
Ora, il film di Vitaliy Mansky non è rappresentativo dei film che in genere vengono mostrati al Doclisboa né del gruppo Dalla Terra alla luna, in cui è selezionato insieme ad autori ben più audaci come Steve McQueen o Avi Mograbi. Gorbachov ha la forma di un documentario televisivo d’approfondimento. Ogni qual volta il nome di un personaggio storico è evocato una didascalia appare sullo schermo per spiegare allo spettatore, in tre righe, chi era Lenin o Stalin o Elsin. Un procedimento che ci informa in realtà più sui tempi in cui viviamo che sulla storia del bolscevismo. L’insistenza con la quale Mansky confronta a distanza Gorbachov e Putin, circondando il primo di schermi televisivi dove il secondo è omnipresente, è tale che diventa quasi una burla. Ed è in fondo maldestro rispetto al film, che nelle sue parti migliori suggerisce che i pochi anni di Gorbachov al potere, tra il 1985 al 1991, hanno rappresentato un momento unico di rottura di cui ancora per molti anni dovremo studiare le dinamiche. Un’altra virtù di questo film è che ci permette un primo passo dentro la programmazione che, tra i suoi molti fuochi, orienta il proprio sguardo verso l’est prossimo o lontano.
Spostandoci nella competizione troviamo il film rumeno You are Ceaucescu to me diretto da Sebastian Mihailescu, nel quale un gruppo di giovani aspiranti attori cerca di farsi scritturare per il ruolo del presidente rumeno, in un film che ne ritrae gli anni ruggenti della lotta politica rivoluzionaria prima e durante la guerra. Il film non manca d’ingenuità, ma testimonia ancora una volta di come la storia delle repubbliche popolari appaia oggi come una zona rimessa o svuotata di fretta e che di cui si cominciano ad esplorare le vicende. Ancora più ad est, ma sempre in competizione internazionale, appare una domanda. Che distanza ci separa dal villaggio cinese filmato da Zhang Mengqi in Self-Portrait: Fairy Tale in 47 km? Non molta, se si pensa a tutti quei romani che abitano al «kilometro x» di una consolare.

NON È LA PRIMA volta che Zhang dedica un film alle poche case riunite sopra una collina che, pur meritando il titolo di villaggio, non hanno ancora trovato un nome proprio. Ora, nella costruzione dell’identità non si è mai soli, e Zhang qui aggiunge alla propria le videocamere di due bambine che sognano una casa nuova. Il film ha alcuni momenti di grazia, come quando una delle giovani sognatrici traduce alle altre in cinese le parole di Imagine di John Lennon, e uno strano circolo si instaura tra l’immaginario dell’ovest e quello dell’est. Infine, il film più impressionante visto fin qui a Doclisboa è di un giovane russo di 23 anni che oltre ad essere in competizione con Winter ha altri 2 film in programma. Si chiama Vadim Kostrov e ne parleremo diffusamente nella prossima corrispondenza da Doclisboa.