È fuga dal Sudan in guerra. Accanto a paesi, come l’Arabia saudita, che hanno già cominciato ad evacuare i propri cittadini dal paese africano precipitato in un conflitto sanguinoso tra esercito e paramilitari delle Rsf che ha fatto quasi 500 morti e migliaia di feriti, molti altri programmano di farlo in tempi stretti. Approfittando della tregua precaria, di tre giorni per la festa islamica dell’eid al fitr proclamata dai capi delle parti in lotta, il comandante delle milizie Rsf Mohammed Hamdan Dagalo (Hemetti) e il generale e comandante delle forze armate Abdel Fattah al Burhan. Come Usa, Gb, Francia, Cina e altri paesi, l’Italia sta organizzando l’evacuazione di 200 nostri connazionali, tra personale dell’ambasciata e delle ong e agenzie umanitarie, che lavorano in Sudan. «La nostra ambasciata e la Farnesina stanno già registrando i nomi degli italiani che vogliono lasciare subito il paese», ci diceva ieri una cooperante a Khartoum.

Dagalo dopo il colloquio avuto con il Segretario generale dell’Onu Guterres, si è detto pronto ad aprire tutti gli aeroporti per consentire ai cittadini di «paesi amici e fratelli» di lasciare il Sudan in sicurezza. In realtà le sue Rsf non controllano gli aeroporti, che sono nelle mani delle forze regolari, ma almeno possono smettere di minacciare i voli civili. Qualche giorno fa raffiche sparate dai paramilitari avevano colpito un aereo saudita. La tregua c’è solo a parole. Nella capitale gli scontri a fuoco non sono mai cessati. Testimoni hanno assistito allo spostamento di carri armati, blindati, automezzi le armi e sentito forti esplosioni. Un edificio civile è stato colpito e intere famiglie non hanno più un tetto. Prima della tregua i miliziani di Dagalo avevano occupato stazioni di polizia e, secondo l’esercito, usato i civili come scudi umani, oltre a saccheggiare mercati e abitazioni e ad assaltare l’ospedale di Al Saha. A Khartoum la popolazione in pratica è senza elettricità e deve affrontare il razionamento degli alimenti e dell’acqua. Le linee di comunicazioni funzionano solo in parte.

Le Rsf intanto smentiscono di aver ricevuto dal gruppo di mercenari russi Wagner, come ha riferito la Cnn, missili terra-aria vitali per limitare la superiorità aerea delle forze regolari. Senza l’aviazione, l’esercito di Al Burhan perderebbe un vantaggio decisivo: pur essendo grande il doppio delle Rsf e ha armi pesanti ma non è addestrato alla guerra urbana come gli uomini di Dagalo. Certo è che quello che era cominciato come uno scontro interno tra gli autori del golpe militare del 2021, rischia nelle prossime settimana di diventare un conflitto per procura. Si è parlato, ad esempio, di uno scontro a distanza per l’egemonia in Sudan tra l’Egitto, schierato con Al Burhan, e gli Emirati che starebbero con le Rsf, sebbene il Cairo sia dipendente da Abu Dhabi per aiuti essenziali alla sua traballante economia. Ma gli interessi sono ben più vasti e Dagalo in qualche modo li incarna per i legami diretti che ha con una serie di paesi e il controllo che mantiene su miniere da cui si estrae circa il 40% delle esportazioni di oro del Sudan.

Burhan a sua volta sarebbe influenzato dal Kizan, i sostenitori islamisti di Omar al Bashir con radici nei Fratelli musulmani. Per questo non dovrebbe avere l’appoggio dell’Egitto di Abdel Fattah El Sisi – nemico della Fratellanza – ma il Cairo non può negargli il suo appoggio poiché hanno amici e interessi in comune. Un ruolo importante lo giocherà il National Congress Party sudanese colonna dell’ex regime di Al Bashir ramificata a livello nazionale. Così come fazioni armate come il Movimento Giustizia e Uguaglianza del Darfur occidentale – una formidabile forza combattente – in passato sostenuta dal Ciad e dalla Turchia; l’Esercito popolare di liberazione sudanese del Nord di Abdelaziz al Hilu; una fazione agguerrita del Movimento di liberazione del Sudan del leader ribelle del Darfur Minni Minnawi e anche il gruppo di Abdul-Wahid al Nur.