La vertenza operaia contro i licenziamenti alla Gkn di Campi di Bisenzio – uno degli episodi più significativi di lotta di classe degli ultimi decenni – dovrebbe essere considerato con maggiore attenzione dalle forze politiche di sinistra e in genere dai governanti democratici italiani ed europei. Estendo il campo al di là del fronte della sinistra non solo perché la legittimità delle rivendicazioni operaie è riconosciuta dalla Costituzione italiana – come hanno meritoriamente ricordato i Giuristi democratici su questo giornale (22/9) – ma per ragioni più generali su cui occorre soffermarsi.

Il cuore del conflitto alla Gkn, è la decisione della dirigenza dell’impresa di delocalizzare le attività di fabbrica nonostante la piena efficienza produttiva dell’azienda. Dunque un classico caso di “fuga” del capitale in cerca di condizioni migliori di profitto, in genere il più basso costo della forza lavoro e le facilitazioni fiscali offerte da altri stati.

Si tratta di scelte di ordinaria iniquità, che si ripetono da anni in Europa e nel mondo, intorno a cui monta per qualche tempo la discussione sindacale e politica, e che si concludono con qualche compromesso, senza mai pervenire a una legge statale severa che limiti questa asimmetrica libertà del capitale.

Generalmente, il timore che le imprese multinazionali scelgano di non investire dove le leggi proteggono legittimamente la classe operaia, induce i governi alla prudenza, a non intervenire e non porre vincoli, anche quando si tratta, come in questo caso, di applicare le norme delle proprie costituzioni. E’ una grave cessione di sovranità con conseguenze di vasta portata.

Allora, ai timorosi e ai prudenti, occorre ricordare quali sono stati sul piano storico gli effetti generali della pratica della delocalizzazione, affermatasi con i processi di globalizzazione negli ultimi 30 anni. La possibilità di trasferire agevolmente le imprese in ogni parte del mondo, grazie anche alla rivoluzione informatica, ha depotenziato gravemente quello che è stato uno dei motori dello sviluppo capitalistico in Occidente lungo l’età contemporanea. Il motore segreto della sua prosperità sociale.

La delocalizzazione, infatti, la possibilità dell’imprenditore – di fronte alla richiesta delle maestranze di aumenti salariali, migliori condizioni in fabbrica, diminuzione dell’orario di lavoro – di spostare l’impresa dove gli operai non hanno troppe pretese, mutila alla radice quel minimo di “parità” tra operai e capitale che ha reso possibile la lotta di classe per oltre due secoli di sviluppo industriale.

Dobbiamo rammentarlo a tutti. E’ stata la lotta operaia, la possibilità dei lavoratori e dei loro sindacati di imporre agli imprenditori migliori condizioni di lavoro, insieme, certo, alla competizione intercapitalistica, a spingere i capi d’impresa alla continua innovazione tecnologica per recuperare i margini di profitto erosi dalle conquiste operaie.

Una spinta che si è irraggiata, su tutta la società: imprimendo slancio alla ricerca tecnico-scientifica, allargando il mercato interno attraverso migliori condizioni sociali degli operai, creando i ceti medi, dando vita alla lotta politica moderna e alla nascita dei grandi partiti popolari. E’ grazie al conflitto tra operai e capitale, alle lotte che hanno investito il mondo del lavoro nei punti più alti dello sviluppo industriale, in Europa e in Nord America, che la politica è stata concepita come leva per cambiare le strutture della società.

Senza quelle lotte non sarebbero stati possibili gli stati liberali. Tutto il pensiero politico contemporaneo, a partire da Rousseau, è inconcepibile senza quel motore, che con la nascita dell’industria scuote i paesi avanzati.

Sotto il profilo sociale oggi appare evidente che la delocalizzazione, insieme alla destrutturazione organizzativa delle aziende, è una delle cause del grave indebolimento della middle class americana e del ceto medio dei paesi sviluppati. Una delle sorgenti delle disuguaglianze che lacerano il mondo attuale.

Ma non è un caso che questa nuova asimmetria di potere tra operai e capitale, che ha concentrato un dominio strabordante in mano ai grandi gruppi industriali e finanziari, permettendo la frantumazione e la precarizzazione del lavoro, coincida con il grave declino della politica, la fine dei partiti popolari, l’indebolimento delle democrazie.

E’ evidente che il ceto politico democratico e specificamente quello un tempo di sinistra, scegliendo l’equidistanza centrista – “né con gli operai né col capitale” – ha gravemente depotenziato la sua capacità di rappresentanza, la sua forza contrattuale, la sua stessa rilevanza all’interno delle società di capitalismo avanzato. Un vero processo di automutilazione da cui bisogna uscire.

Ed è almeno a livello europeo – ma anche gli Usa di Biden sembrano muoversi in questa direzione – che il potere pubblico deve rendere difficile il gioco delle localizzazioni. Gli operai della Gkn indicano la via di una possibile inversione storica.