Si è svolta a Venezia, ieri e l’altro ieri, la prima conferenza ministeriale sotto la presidenza italiana del Consiglio d’Europa (partita lo scorso 17 novembre). A riunirsi a Venezia, in particolare, sono stati i ministri della giustizia di tutti i Paesi che compongono il Consiglio; l’argomento della conferenza era la giustizia riparativa. Fino ad alcuni anni fa, quasi nessuno avrebbe saputo dire di cosa si trattasse: la giustizia riparativa era un’idea, prima ancora che una pratica, quasi sconosciuta più o meno ovunque. Oggi lo è molto meno, ormai la giustizia riparativa è conosciuta e praticata in molti Paesi: in Italia come in Europa, e non solo in Europa.

Del resto la stessa Conferenza dei giorni passati ha ripreso il discorso da dove lo aveva lasciato, da ultimo, la Raccomandazione numero 8 del 2018 del Comitato dei ministri del medesimo Consiglio d’Europa, che già incoraggiava gli Stati membri a promuovere la giustizia riparativa all’interno dei loro sistemi di giustizia penale.

DI COSA PARLIAMO, dunque, quando parliamo di giustizia riparativa? Parliamo, secondo la definizione contenuta appunto nella Raccomandazione del 2018, di un processo funzionale a consentire alle persone coinvolte in un reato – sia a quelle che lo hanno commesso, sia a quelle che lo hanno subìto – di partecipare attivamente, a patto di acconsentirvi in piena libertà, alla soluzione delle questioni che a partire da quel reato le oppongono le une alle altre, tramite l’aiuto di un soggetto terzo imparziale. Ed è vero che le definizioni incontrano sempre un limite nel fatto di voler chiudere in una clausola ciò che descrivono, ma qui la definizione ha il pregio di lasciar intendere molto bene la specialità dello sguardo della giustizia riparativa nel contesto del diritto penale: perché si capisce subito che il reato non viene più guardato come la pura e semplice violazione di una norma, quanto come un’esperienza di ingiustizia che frattura una relazione e procura una ferita.

Ecco: la giustizia riparativa, come ha sottolineato la ministra italiana della giustizia Marta Cartabia in apertura dei lavori, scommette sulla possibilità di curare le ferite, di ricostruire le relazioni. Non le interessa il perdono, che riguarda le coscienze, né la punizione o l’assoluzione, che spetta ai tribunali infliggere o concedere: ciò che le interessa è cercare di mettere le parti l’una davanti all’altra, ciascuna nella condizione di poter raccontare all’altra la propria realtà, quale soggettivamente vissuta – ciascuna nella condizione di poter finalmente dare un volto ai propri fantasmi.

Nel mondo, il modello più alto di giustizia riparativa che abbia mai visto la luce è quella della Commissione sudafricana per la Verità e la Riconciliazione; in Italia, è senza dubbio quello del confronto fra alcuni responsabili e alcune vittime della lotta armata fra gli anni settanta e ottanta, promosso qualche anno fa da Adolfo Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato (testimoniato poi da un volume memorabile, Il libro dell’incontro, da loro stessi curato).

Ora la Dichiarazione finale della Conferenza di Venezia rappresenta, dal punto di vista della forza e della chiarezza delle sue parole, un passo ulteriore verso questi modelli rispetto alla Raccomandazione del 2018, tanto nelle sue premesse quanto nelle conclusioni. Nelle premesse, dove afferma il valore culturale e sociale tout court della giustizia riparativa, nella sua funzione di contrasto ai processi di radicalizzazione degli individui (dai quali deriva a sua volta la radicalizzazione delle violenze).

Nelle conclusioni, dove invita tutti gli Stati membri a voler dare concretamente seguito alla Raccomandazione del 2018, sia nell’ambito della giustizia rivolta agli adulti sia nell’ambito di quella rivolta ai «giovani in conflitto con la legge», anche attraverso una specifica formazione degli operatori del diritto e della polizia, e dove chiama il Consiglio d’Europa a favorire l’applicazione di principi comuni.

QUALCUNO FORSE DIRÀ: è poco, sono solo auspici, sono considerazioni generiche. Tutt’altro, è moltissimo. Se ne può condividere o non condividere lo spirito, ma almeno una cosa sembra innegabile alla giustizia riparativa: il fatto di incarnare un ideale. È quello che dovrebbe sempre fare il diritto: non accontentarsi dell’esistente o del prevedibile, non ripiegarsi su di sé, ma tendere verso un orizzonte. E non esiste processo verso orizzonti ideali che non abbia bisogno, in primo luogo, di mutamenti culturali.