L’assassinio di Giulio Regeni ha profondamente scosso il mondo accademico, e non solo perché ci ha resi a nostra volta testimoni della sistematica, dissennata brutalità di un regime che, reggendosi su patti di impunità, si accanisce criminalmente sul meglio in cui chiunque di noi può capitare imbattersi nelle università.

Giulio era impegnato in prima linea e con scrupolo (e impeccabilità deontologica come dimostrato dal recente video pubblicato on line) in una difficile ricerca la cui importanza sfugge ancora a molti.

La sua tragedia e le reazioni che si sono susseguite illuminano profonde contraddizioni che riguardano l’accesso alla conoscenza della realtà che ci circonda, dall’informazione fino alla ricerca condotta in ambiti sensibili e ostili. Il dibattito su cosa fare e non fare per difendere responsabilmente la libertà di ricerca è più che mai aperto.

La «vicenda Regeni» è un punto di giuntura fra la repressione violenta delle libertà di ricerca ed espressione nei paesi del vicinato europeo (inclusi i paesi ai cui leader riserviamo il tappeto rosso) e forme di disciplina e costrizione molto più sottili e diffuse a cui, proprio nel nome della pericolosità della ricerca condotta là, viene sottoposta la ricerca qua, in quella che ambisce ad essere una «società della conoscenza». In questi mesi abbiamo visto schiere di accademici portati via dalle forze di sicurezza turche, arrestati o licenziati dietro l’accusa di terrorismo. Ma repressione e attacchi contro docenti, ricercatori, studenti sono pratica quotidiana ovunque, come documentano i rapporti di Scholars at Risk e di Global Coalition to Protect Education from Attack. Nella figura di Giulio Regeni si sono subito rispecchiate decine di storie di sparizione forzata in Egitto.

Molto spesso si tratta di attacchi deliberati, miranti a paralizzare segmenti-chiave del dissenso organizzato, gli snodi nel mondo urbano istruito e cosmopolita. Tale tattica venne esplicitamente perseguita nelle Filippine dello scorso decennio, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. Altre volte si tratta di cieca ignoranza circa cosa sia e cosa faccia un ricercatore, ignoranza dietro la quale alligna il sospetto di avere a che fare con un agente sotto copertura.

Di questa stessa ignoranza hanno dato prova i commenti apparsi su molti media italiani, dove i più retrivi istinti hanno trovato sfogo nella rappresentazione di un Giulio Regeni forse ignaro, ma di certo manipolato e sacrificato. L’argomento si ripete: chiudere l’incidente senza sacrificare l’interesse nazionale rispetto all’Egitto. A corredo di questa tesi abbiamo letto formidabili distorsioni del rapporto fra supervisore e dottorando, fantasiose ricostruzioni dei metodi di ricerca impiegati nella ricerca sul campo. Questa mistura di malevolenza e ignoranza insidia la verità più semplice: Giulio Regeni stava facendo il suo lavoro di ricerca, e lo faceva bene, coscienziosamente, esprimendo i propri dilemmi; la sua vita è stata spezzata perché impigliatasi – in circostanze su cui è necessario gettare luce – negli ingranaggi di meccanismo dominato dalla banalità del male, come documentato da qualsiasi rapporto sull’Egitto di oggi. Per altro verso, la tragedia ha innescato in molti atenei un dibattito – al quale il manifesto ha dato ampio spazio – sulle criticità della ricerca sul campo e sull’obbligo di protezione (duty of care) da parte di datori di lavoro e supervisori.

È un dibattito che ha a che vedere con le procedure che autorizzano la ricerca, e vede istituzioni timorose di trovarsi coinvolte in ricorsi per negligenza o situazioni che non sanno gestire. Ed è un dibattito caratterizzato da incertezza, impaccio persino nel definire i luoghi, le modalità e la natura stessa della «ricerca a rischio»: dove, come e quando questa si configura il rischio nel quotidiano di chi conduce ricerca sul terreno? Si può autorizzare una tesi di laurea con ricerca in un paese alleato come la Turchia, oggi, dal momento che lo consideriamo così sicuro da respingervi richieste di asilo? Il concetto di rischio, d’altro canto, apre il sipario su soluzioni tecniche e commerciali che vanno dalla sottoscrizione di codici di comportamento a polizze assicurative specifiche, dall’offerta di corsi e training d’ogni genere a dispositivi che consentono il controllo remoto (parametri vitali e coordinate geografiche) dell’impiegato in contesti a rischio. Le implicazioni biopolitiche di queste pratiche non sfuggono.

Da una parte avremo schemi di finanziamento che, nel nome dell’innovazione, premiano progetti high risk/high gain, aree di frontiera verso le quali si proiettano i giovani ricercatori. Dall’altra, costi aggiuntivi per la «ricerca sicura» spingeranno fuori gioco le istituzioni che non potranno permettersi gli standard emergenti di duty of care. Per non parlare dei «dati sensibili» della ricerca: da un lato vengono imposte procedure di protezione, dall’altro le riviste scientifiche richiedono piena trasparenza nel nome della replicabilità dei risultati.