Giravolte dello spirito di Violette Nozière
Le fuorilegge Dal tribunale al grande schermo: storie di donne sotto accusa. Primo appuntamento con la vicenda della studentessa francese condannata nel 1934 per parricidio
Le fuorilegge Dal tribunale al grande schermo: storie di donne sotto accusa. Primo appuntamento con la vicenda della studentessa francese condannata nel 1934 per parricidio
Cosa grida la folla alle fuorilegge? Non grida «assassina», «ladra» o «terrorista» ma «puttana», «fatti stuprare», «dalla all’uomo nero». Lo abbiamo visto sulle banchine del porto di Lampedusa. Si tratta di un’ignominia antica che sopravvive e riemerge in tutte le epoche. L’idea di «Le fuorilegge» è di tentarne una piccola archeologia attraverso alcuni ritratti cinematografici, prendendo casi diversi come la parricida Violette Noizière, la rivoluzionaria Angela Davis, le domestiche Papin, la folle Ida Dalser, la comunarda Louise Michel… Si tratta da un lato di vedere come e in che misura l’essere non sottomesse all’autorità maschile è il capo d’accusa di fondo di tutti questi casi celebri. E quindi di come le fuorilegge sono in ultima analisi fuori norma. E da un altro lato di vedere come intorno a questo crimine si crea rapidamente un delirio di desideri contrapposti, dai quali emergono dei ritratti che si accumulano come maschere sui personaggi effettivamente esistiti; e come il cinema, pur reinventandole, usa queste donne come vettori per accedere ad uno stato del mondo
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Il 23 marzo del 1933, una giovane studentessa appena diciottenne di nome Violette Nozière somministra una dose mortale di veleno al padre, che muore la sera stessa, e alla madre, che miracolosamente si salva. Arrestata poco dopo i fatti, afferma davanti al giudice istruttore di aver agito per vendetta nei confronti del padre in quanto questi avrebbe abusato di lei. Il 12 ottobre 1934, è condannata a morte. Ma la pena viene commutata con i lavori forzati a vita. Il 6 agosto del 1942, il maresciallo Petain riduce la sentenza a 12 anni. Il 29 agosto del 1945 è libera. Nel novembre dello stesso anno, il Generale de Gaulle le concede la grazia. Venti anni dopo, Violette Nozière è riabilitata dalla corte d’appello di Rouen che, evento inusuale nel diritto francese, cancella la sua fedina penale e le restituisce i diritti civili. Pochi personaggi hanno suscitato tanto clamore come il suo, scomodato due capi di Stato, provocato un numero immenso di pubblicazioni popolari, scientifiche, artistiche.
ANCORA OGGI, in Francia il suo nome è quasi universalmente noto. E tutti ancora si chiedono chi sia, se sia vero che Baptiste Nozière, meccanico delle ferrovie, aveva abusato di lei. Oppure se, come scrisse allora la stampa conservatrice, il padre era innocente e Violette non era altro che una «sgualdrina» che aveva agito con l’intento di rubare. Ancora oggi, nonostante la riabilitazione, il personaggio resta pieno di ombre. Da subito, la stampa se ne appropria, raccontando il processo come un feuilleton, facendo costantemente allusione all’accusa di strupro e di incesto pur essendo incapace di enunciare chiaramente i termini, troppo crudi per l’epoca.
D’altra parte, il movimento surrealista, che della stampa di quegli anni è un’estensione e un prolungamento estremo sul terreno della poesia e del disegno, fa della studentessa un proprio emblema, creando il personaggio dell’«angelo nero», sorta di eroina della rivoluzione antiborghese che con il suo gesto avrebbe distrutto il nido di vipere della famiglia tradizionale. Rapidamente, Violette Noizière entra nella cultura popolare, nelle canzoni, il suo personaggio si colora di sempre nuove maschere che non sono altro che cartine tornasole delle varie componenti della Francia del tempo.
A QUESTO movimento di appropriazione e di identificazione, che non può non ricordare il destino di Giovanna D’Arco, andrebbe per ultimo iscritto anche Claude Chabrol. Il suo film che si chiama appunto, semplicemente, Violette Nozière è del 1978; Chabrol ha già realizzato oltre trenta lungometraggi per il cinema, ma in qualche modo con questo la sua opera rinasce e si dà una nuova missione. È anche il suo primo film con Isabelle Huppert che incarnando il personaggio della parricida pone le basi di un prototipo che la accompagnerà, proprio insieme a Chabrol, nella creazione di una serie di vendicatrici antiborghesi, di ladre, di fuorilegge. Qual è l’interpretazione di Chabrol? Chi è, per lui, Violette Nozière?
JEAN NARBONI ha notato in un suo articolo pubblicato quando uscì il film («Cahiers du cinéma», n°290-291), che se Chabrol si interessa al crimine è solo nella misura in cui l’efferatezza dell’atto ci appare legata all’assurdità di un quadro domestico in fondo ordinario e sempre sul punto di poter essere riassorbito da esso. Il tribunale cerca sempre le ragioni al crimine. Ovvero delle determinazioni chiare, dei moventi studiati, o ancora delle cause effettive che in maniera quasi meccanica conducono il criminale ad agire. Il modo di funzionamento di Chabrol è esattamente opposto.
Ed infatti il suo film funziona come un anti-tribunale. Non solo nel senso che tutte le scene del processo ci sono risparmiate. E solo nel finale assistiamo ad alcuni momenti dell’istruttoria, dove l’imputata è interrogata dal giudice o messa a confronto con la madre. Soprattutto, il racconto funziona proprio come un processo al contrario, che invece di giustificare una pista o dimostrare un’ipotesi le prova tutte, una per una, solo per smontarle o lasciare lo spettatore nel dubbio. Ogni scena funziona come una sorta di testimonianza, con un suo tono e un suo punto di vista. Così è la sequenza del giovane fascista che Violette seduce brutalmente in un bar del quartiere latino. O quella del musicista nero, che è l’unico a non prenderla né dall’alto né dal basso. Fino alle molteplici scene domestiche con la madre, che guarda la figlia ora come una Santa Maria Goretti ora come una sgualdrina. O ancora il passaggio dal medico, che le diagnostica una sifilide, ma afferma che potrebbe trattarsi di una malattia congenita (la colpa ricadrebbe allora sulla famiglia) oppure acquisita.
Tutte queste testimonianze, precisissime dal punto di vista storico non fanno che imbrogliare il ritratto principale, che appare sempre di più come il quadro del Capolavoro sconosciuto di Balzac, dove un pittore ossessionato dalla perfezione ritocca la sua tela fino a creare un imbroglio di colori senza forma dai quali emerge, su un lato, un piede perfettamente disegnato.
Sul grande schermo, questa prova di forza non sarebbe possibile senza la prestazione plastica di Isabelle Huppert. Quando, all’inizio del film, la vediamo entrare nel caffè del quartiere Latino, dove alcuni giovani discutono animatamente di politica, Violette è una donna matura, che ha la sfrontatezza d’una prostituta occasionale.
Poco dopo, è una giovinetta acqua e sapone intenta a studiare nel minuscolo appartamento dei genitori. Tra queste due maschere estreme, che Violette veste e sveste come fosse catwoman, trasformandosi nel bagno del pianerottolo condominiale, c’è una serie infinita di sfumature che l’attrice impone letteralmente in un batter d’occhio. Di queste giravolte dello spirito, un magistrato cercherebbe la verità ultima. Chabrol percorre la strada in senso inverso, mostrando che un crimine non cessa di essere tale solo perché nel fondo dell’anima non c’è nulla che non sia contingente e fortuito. Non è senza giubilo che il maestro francese chiude il proprio film raccontando l’ultimo colpo di scena dell’angelo nero. Uscita di prigione, Violette Nozière sposa il figlio del contabile dello stesso istituto di Rennes dove per undici anni era stata reclusa. È questa la vera Violette? Sì e no. L’ultima maschera non prova né smentisce le precedenti. Conferma solo un paradosso.
IL FILM ha lasciato ad alcuni l’amaro in bocca. E ad altri la sensazione che Chabrol, non prendendo una posizione chiara sullo stupro, volesse alimentare in fondo l’idea che Violette Nozière avesse inventato tutto. In questo, Chabrol non potrebbe essere più distante dai film politici, dai famosi «casi» celebri che il cinema italiano segnatamente ha fatto propri (o il cinema francese con Costa Gavras) proprio in quegli anni. Per lui non si tratta di svelare, di far apparire l’immagine vera dietro quella illusoria. Non si arriva mai ad una vera Violette. Il sentimento di fondo di Chabrol è molto più radicale, molto meno rassicurante: non fa del crimine una determinazione dell’essere sociale ma una sua possibilità intrinseca, né più né meno che la norma al quale si oppone. Non c’è, nemmeno nel parricidio, il più odioso dei crimini secondo la tradizione culturale e legislativa, nessuna enormità. O meglio, non ce n’è di più di quanta se ne possa trovare in una vita soggetta alle regole. È di questo paradosso che Violette Nozière è la sfinge.
1.continua
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