Una triste coltre di silenzio avvolge la vicenda dei giornalisti italiani cui è stato impedito di entrare in Ucraina o è stato revocato l’accredito per poter svolgere la propria attività professionale. Vi è l’ordine di non parlarne?

Ne ha parlato – invece – in una diretta online ieri mattina l’associazione Articolo21, in collegamento con uno dei cronisti, Salvatore Garzillo, l’avvocata Ballerini che segue il caso, il presidente dell’ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, nonché i nuovi presidente e segretaria della Federazione nazionale della stampa Vittorio Di Trapani e Alessandra Costante.

La redazione consiglia:
Giornalisti italiani, la censura del governo ucraino

«Auspichiamo un’azione forte del governo italiano per garantire ai colleghi la possibilità di lavorare e soprattutto per evitare loro i possibili rischi cui potrebbero essere sottoposti. Una situazione che non ci fa stare tranquilli», ha affermato Bartoli, impegnato fin dall’inizio della crisi a cercare una soluzione. E, per incalzare gli interlocutori, Di Trapani: «Stiamo seguendo minuto per minuto la vicenda, in contatto con il ministero degli esteri e con le organizzazioni internazionali dei giornalisti. Ci risulta che l’ambasciata italiana si stia muovendo».

Si è convenuto con Giuseppe Giulietti sulla particolare gravità della situazione, oscurata non casualmente dalle principali testate, ivi comprese quelle della Rai, che pure si sono avvalse dei contributi dei cronisti ora imbavagliati.

La prevista conferenza stampa di Giorgia Meloni, attesa in queste ore a Kiev dopo la visita di Biden, sarà l’occasione per sollevare il problema: quali sono le accuse mosse dai servizi segreti nei riguardi di chi non fa propaganda, bensì informazione sulla guerra? Vale anche in tale circostanza la solita terribile strategia del segreto, in base alla quale i misfatti e le atrocità non devono venire a conoscenza dell’opinione pubblica?

Una peculiarità dei regimi è proprio simile tendenza, volta a nascondere i lati oscuri e indicibili del potere. La trasparenza è la condizione ineludibile della democrazia, come recita la campagna per la libertà di Julian Assange, che con WikiLeaks mise il naso negli arcani dei conflitti in Iraq e in Afghanistan.

Auguriamoci che il quadro si dipani e non ci si incammini verso un buco nero. In verità l’Ucraina, prima ancora dell’aggressione russa, non si segnalava per particolari aperture sui media. Anzi, sembrava gareggiare proprio con Mosca per bavagli e repressione. Del resto, occupava il 101° posto nella classifica mondiale sul tasso di tutela dell’informazione. E non è lecito dimenticare la tragica uccisione nel 2014 ad opera dell’esercito (come recita la sentenza della magistratura) del fotoreporter Andrea Rocchelli, impegnato a documentare la guerra del Donbass.

Tuttavia, parrebbe in campo la diplomazia alla Farnesina e a Kiev.

Ci si attende, però, una presa di posizione da parte della presidente del consiglio, che già avrebbe dovuto incontrare Zelensky. L’appuntamento è stato rinviato per la precedenza accordata (ovviamente) al capo dello stato statunitense. Ma si svolgerà.

Giorgia Meloni non può rimanere silente davanti a quanto sta accadendo. Se ha a cuore, come talvolta afferma, il diritto fondamentale sancito dalla Costituzione deve prendere posizione. Alfredo Bosco, Andrea Sceresini e gli altri rischierebbero di non potere scrivere e produrre servizi per cinque anni, se la mannaia scendesse inesorabile.
Ecco perché il silenzio non è d’oro: è di piombo.