Un filo visibilissimo lega lo sport e la guerra, mentre l’invasione dell’Ucraina tiene la Russia fuori dai Giochi di Parigi e la Palestina è straziata dalla risposta dell’esercito israeliano all’attentato di Hamas del 7 ottobre. La guerra aleggiava costantemente sulle Olimpiadi classiche, quando solo la «tregua sacra» consentiva ad atleti, allenatori e spettatori di recarsi in sicurezza a Olimpia mentre infuriavano i conflitti fra le litigiosissime póleis greche. Nell’era moderna invece nessuno è mai stato capace di anteporre i Giochi alle guerre, e sono state queste ultime a fermare le Olimpiadi e non viceversa.

Nel 1916, l’edizione assegnata a Berlino fu annullata perché ormai da due anni era in corso la Prima guerra mondiale. Lo sport, tuttavia, non scomparve del tutto, ma cambiò pelle. Il movimento olimpico, rifondato dal barone De Coubertin in piena Belle Époque, era ancora nella sua infanzia e per niente stabilizzato. Dopo il il buon esito dell’esordio ad Atene, le Olimpiadi di Parigi (1900) e St. Louis (1904) furono disputate nel quadro delle Esposizioni universali, diluendo eccessivamente il programma e generando un caos tale che alcuni partecipanti nemmeno sospettavano di concorrere ai Giochi. Inoltre, il modello dei giochi rivaleggiati e di squadra, codificati dai britannici, non era ancora consolidato.

De Coubertin, il cui atleta ideale gareggiava per Zeus e per la propria gloria individuale, detestava il tifo e il nazionalismo impliciti negli sport di squadra e perciò rifiutava la stessa idea di un medagliere per nazioni. In più, lo sport agonistico pativa ancora la concorrenza – seppur declinante – dell’attività motoria di tipo igienico-pedagogico, sorta alla metà del XIX secolo soprattutto come addestramento militare. Fu questa attività ginnica, di tipo metodico, ripetitivo e non competitivo, tutta centrata sulla corretta postura del corpo e sulla rigida esecuzione di movimenti standardizzati, che gli eserciti, soprattutto quello italiano, trasferirono nei teatri bellici. Queste forme di ginnastica, non alimentando la collaborazione e lo spirito di gruppo, si rivelarono però totalmente inadatte a efficientare lo sforzo militare, anche perché non lenivano affatto il logoramento emotivo e psicologico che consumava le truppe stipate nelle trincee, nell’attesa snervante di sferrare l’attacco o di subirlo.

Un definitivo cambio di paradigma venne dall’attivismo insieme assistenziale e apostolico della Young Men’s Christian Association (YMCA), l’associazione giovanile fondata a Londra nel 1844 dal pedagogo George Williams. Fin dal 1915 operativa nei campi di prigionia di entrambi gli schieramenti, la YMCA incrementò la propria presenza con l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Nacquero così le «case del soldato», dove i militi potevano svagarsi, leggere libri, imparare a scrivere, studiare la bibbia, pregare e soprattutto fare attività fisica e praticare sport. Tonnellate di attrezzature sportive invasero l’Europa e favorirono la diffusione di discipline come la pallavolo, la pallamano e soprattutto il basket, inventato nel Massachusetts dal docente e missionario John Naismith. Si giocarono incontri, tornei e persino campionati regolari, che in gran misura contribuirono a scaricare le tensioni che attanagliavano i soldati e a rigenerarne le energie nervose.

Con la fine delle ostilità, i piani della YMCA si fecero più ambiziosi. Nel novembre 1918, il comandante delle forze americane, il generale John Pershing, fu convinto dell’opportunità di allestire addirittura dei Giochi inter-alleati a Parigi. Stavolta l’obiettivo era canalizzare l’esuberanza di soldati che si trovavano improvvisamente inoperosi ed evitare gli sgradevoli effetti collaterali della guerra contro il Messico, quando un’epidemia di malattie veneree si era propagata nell’esercito a stelle e strisce. La prospettiva della kermesse sportiva avrebbe tenuto a freno le pulsioni sessuali delle truppe, uno scopo che ben si accordava con i valori della YMCA, il cui «cristianesimo muscolare» caldeggiava una mascolinità tutta dedita alla sublimazione del desiderio e alla riproduzione.

Come risulta dall’accurata ricerca dello storico francese Thierry Terret, la YMCA si accollò di fatto tutte le spese, inclusa la costruzione dello stadio (subito intitolato al generale Pershing), e condivise la completa responsabilità organizzativa con i vertici del corpo di spedizione americano. Il Governo francese, che ancora non dava molta importanza allo sport, accettò di buon grado questa sorta di extra-territorialità, lieto di ricevere in eredità un’arena sportiva che nella capitale ancora non esisteva.

I Giochi inter-alleati si svolsero dal 22 giugno al 6 luglio 1919 e, come dichiararono i responsabili senza risparmiarsi in magniloquenza, sancirono «la fine della Grande Guerra e l’inizio, in questa unica festa d’amore tra razze e nazionalità diverse, di una pace più grande e più piena di speranza di quella che il mondo aveva mai conosciuto». I soli partecipanti furono gli uomini che avevano militato nelle forze armate dei paesi che avevano vinto la guerra, nel bel numero di 1415, provenienti da 16 delegazioni nazionali. Gli americani dominarono le gare, seguiti a debita distanza dai francesi, mentre gli italiani si classificarono al terzo posto. Fra i risultati di rilievo, vi furono i successi nel pugilato di Gene Tunney, che negli anni ‘20 avrebbe conquistato la cintura mondiale dei pesi massimi, e le vittorie del nuotatore Norman Ross, che avrebbe poi dato agli Stati Uniti tre «veri» ori olimpici.

De Coubertin sdegnosamente non presenziò e anzi vietò che si usasse il nome «Olimpiadi», ma dovette in seguito riconoscere che la manifestazione aveva contribuito a mantenere vivo lo spirito olimpico e a rimetterne in moto la macchina organizzativa, che l’anno successivo produsse la ripresa delle Olimpiadi ufficiali ad Anversa.