Sul movimento dei gilet gialli abbiamo rivolto alcune domande allo storico e demografo Hervé Le Bras, docente all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi.

Da anni lei analizza le trasformazioni della società francese a partire dalla carta geografica del paese: da questo punto di vista che cosa ci dice la mappa della mobilitazione dei «gilet gialli»?
La prima cosa che salta agli occhi è che il movimento raccoglie la maggior parte dei propri aderenti lungo quella che chiamerei «la diagonale del vuoto», che va dalle Ardenne ai Pirenei atlantici tagliando in due il paese. È una linea che attraversa regioni che si stanno spopolando, dove sopravvive la ruralità più profonda; zone che hanno visto progressivamente scomparire i servizi pubblici e dove i negozi chiudono i battenti uno dopo l’altro. A titolo di esempio si può citare il dipartimento della Nièvre, che si trova più o meno al centro della Francia, dove in occasione della prima mobilitazione dei gilet gialli, il 17 novembre, quasi il 7% degli abitanti ha partecipato alle proteste.

Perciò si tratta soprattutto di persone che vivono nelle campagne, lontano dai grandi centri abitati?
In realtà la composizione del movimento è piuttosto varia. E questo da diversi punti di vista. La componente rurale, o meglio «periurbana», vale a dire in qualche modo sospesa tra città e campagne, è forte, ma al tempo stesso ci sono anche tanti abitanti delle periferie metropolitane, spesso quelle più distanti dai centri cittadini. Non è un caso che le prime proteste abbiano riguardato l’aumento del prezzo del carburante: si tratta di persone che sono obbligate ad utilizzare l’auto ogni giorno, sia per raggiungere il posto di lavoro che per fare acquisti o andare dal medico.

Il movimento esprime indubbiamente un malessere sociale, ma sono i più poveri a mobilitarsi?
Anche da questo punto di vista le cose sono piuttosto articolate. È un movimento composito al cui interno si mescolano, accanto alla richiesta di un taglio alle tasse e all’aumento dei prezzi, diverse rivendicazioni sociali come il ritorno dei servizi pubblici tagliati in questi anni, soprattutto nella sanità e nei trasporti. Questo oltre ad una più generale domanda di «ritorno» dello Stato accanto ai cittadini. In questo senso più che di «poveri», spesso concentrati invece nelle banlieue e nei quartieri popolari delle grandi città, parlerei di un settore del paese che teme di scivolare verso la povertà, che ha visto diminuire il proprio potere d’acquisto e che guarda al futuro con crescente inquietudine: si sentono abbandonati dallo Stato sia sul piano sociale e economico che su quello della rappresentanza.

Sul piano politico, con la parziale eccezione di Mélenchon, sono soprattutto l’estrema destra del Rassemblement national di Le Pen e la «destra dura» dei Républicaines di Wauquiez a cercare di «recuperare» il movimento. La mappa della mobilitazione ci dice qualcosa al riguardo?
Ci dice che le zone dove la mobilitazione è stata fin qui più forte non corrispondono affatto a quelle dove Marine Le Pen è arrivata in testa alle presidenziali o dove il suo partito è maggiormente radicato. Anzi, si tratta spesso di collegi elettorale di sinistra, dove si è votato a lungo per il Pcf e poi per i socialisti. Ciò non significa che in prospettiva l’estrema destra non possa trarre profitto da questo movimento, che si rivolge soprattutto contro Macron , in vista delle europee del prossimo anno.

L’esecutivo e il presidente hanno scelto la linea dura, annunciando multe, denunce, l’intervento delle forze dell’ordine per disperdere i blocchi stradali. Che senso ha?
Alcun senso, tranne quello di indicare tutti i limiti della stessa presidenza di Macron che ha fatto di tutto per ridurre il ruolo dei corpi intermedi, ha attaccato frontalmente i sindacati, contribuito a smantellare i vecchi partiti, proseguito sulla linea dei tagli al welfare e ora si trova a misurarsi con una protesta che chiede invece «più Stato».

Su quanto sta accadendo nel paese sembra pesare però un non detto, ciò che alcuni ricercatori come Christophe Guilluy, autore di La fin de la classe moyenne occidentale, leggono da tempo come una sorta di contrapposizione tra la «Francia profonda» e bianca e le metropoli multietniche.
Si tratta di una lettura più politica che scientifica dello stato del paese che ha a che fare con il tentativo di trasformare le questioni sociali in termini identitari. In realtà questo scontro immaginario è evocato dalle destre per celare i veri problemi del paese. E, in ogni caso, tra le parole d’ordine dei gilet gialli, nessuna riguarda l’immigrazione, il tema che ossessiona ogni sorta di identitari. Questo movimento non si sta sviluppando lungo la linea del colore della pelle.