Il corpo di Islam Atito, studente egiziano poco più giovane di Giulio Regeni, è stato trovato nel maggio scorso in una piazzola alla periferia del Cairo. Il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar ha detto ucciso in un conflitto a fuoco ma i suoi amici dicono che è stato prelevato da agenti in borghese nel campus universitario, una mattina, e mai più rivisto in vita. Secondo l’associazione locale per i diritti umani Nadeer, in contatto con il Parlamento europeo, sono 66 le sparizioni soltanto nel mese di gennaio in Egitto. Desaparecidos, una parola che bisognerebbe imparare a pronunciare in arabo classico, ormai.

Quanti? Le stime del Dipartimento di Stato americano dal 2013 all’anno scorso arrivano a 60 mila arresti arbitrari legati all’attività politica. Quanti di questi si sono trasformati in morti sotto tortura, è più difficile a dire, molti sono stati spacciati per «terroristi» o «criminali».

Tanto che Nicholas Piachaud, ricercatore per Amnesty International in Egitto scriveva in un articolo apparso sulla rivista Newsweek uscito proprio il giorno della sparizione di Giulio Regeni: «Il mondo farebbe bene a non ascoltare le sirene del governo egiziano di stabilità e sicurezza. Un apparato che utilizza tortura, forza eccessiva, detenzioni arbitrare e sparizioni per schiacciare ogni forma di dissenso non dovrebbe essere considerato un partner strategico». Per l’analista era già allora più che evidente: polizia segreta ovunque, telefonate e social media sotto controllo, condizioni carcerarie disumane. «Il sistema di giustizia penale è fuori controllo», concludeva.

Secondo Human Right Watch nelle carceri egiziane ci sono attualmente 22mila detenuti senza processo, per Amnesty sono 41 mila le persone arrestate e processate in modo arbitrario nel 2015. Le testimonianze di sevizie nelle carceri sono tantissime, specialmente durante gli interrogatori sia della National security agency, diretta da Mohamed Shaarawy, sia dell’intelligence (il Mukhabarat) diretta da Khaled Fawzy, generale veterano della Guerra nel Golfo.
Giulio Regeni è in cima a una lunga lista di persone che spariscono, che i familiari sperano di riabbracciare ma hanno paura a cercare, un elenco di giovani vite massacrate così lungo da comincia a far traballare il regime di Al Sisi, «il buon padre di famiglia» con le mani grondanti sangue, che ha decretato il 2016 «l’anno della Gioventù egiziana».

Amnesty si batte per i casi che si potrebbero ancora risolvere positivamente, oltre che per la verità per Regeni. C’è Ahmed Said, «medico e poeta» in carcere con altri quattro da novembre per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata (art.143 della Legge di procedura penale di cui Amnesty chiede l’abrogazione), una manifestazione che nessuno ha visto, che in effetti non c’è mai stata. Condannato a due anni senza prove.

C’è Mahamoud Hussein in cella da più di due anni, ben oltre il massimo di carcerazione preventiva, entrato bambino a 17 anni e ancora dentro da uomo a 20, solo perché trovato con indosso una maglietta con la scritta «Una nazione senza torture» e una sciarpa che inneggiava alla «Rivoluzione del 25 gennaio», quella del 2011, la cosiddetta Primavera araba.

Poi c’è Mahmoud Abu Zeid, detto «Shawkan», professione fotoreporter, dentro da più di mille giorni per aver fatto riprese in strada durante la repressione della polizia al sit-in contro il golpe il 14 agosto 2013, lasciando 600 morti a terra in un solo giorno.

E Ibrahim Halawa, 20 anni, padre egiziano ma passaporto irlandese, arrestato in quella stessa giornata di sangue che ha incoronato Al Sisi. Era un turista lì. Il 6 marzo scorso il suo processo è stato rimandato per la 13° volta al 26 giugno. Ma almeno a Dublino il governo e i giornali non lo hanno lasciano solo.