«Con This Land ho finalmente trovato la mia voce. È un album politico. È un disco per la gente». Senza fronzoli, ma tremendamente efficace, è il pensiero con cui Gary Clark Jr. presenta la sua ultima pubblicazione. Diciassette brani in cui il bluesman compie un netto passo in avanti, licenziando un lavoro che ne esalta non soltanto le già ben note capacità strumentali e vocali, ma anche le qualità narrative. D’ora in poi si potrà parlare di lui anche come autore di canzoni, capace di comporre liriche che emozionano. E per farlo il texano pesca a piene mani dalla personale storia familiare, riuscendo nell’intento di scioglierla nella contemporaneità del mondo african american.

METTENDO assieme le memorie della discriminazione con cui si è scontrato in gioventù alle esigenze di cercare di costruire un futuro migliore per i suoi due figli, Clark racconta del razzismo mai sopito negli Stati uniti del terzo millennio. Il brano che dà il titolo all’album è il manifesto migliore per sottolineare l’evoluzione del musicista che non fa sconti e esprime il suo dissenso anti Trump, scrivendo con un linguaggio che va dritto al cuore, mentre la sua chitarra traccia linee sonore selvagge e d’impatto.

Anche il relativo videoclip è di notevole potenza comunicativa, grazie alla direzione della giovane e brava regista inglese Savanah Leaf, già pallavolista olimpica a Londra 2012. La stessa firma anche il video del secondo singolo What About, altro energico rock blues capace di scalare le classifiche. La black consciousness di Clark, riesce ad essere ulteriormente carismatica con arrangiamenti attuali ed innovazioni di rilievo, vedasi un evidente e ripetuto impiego dell’elettronica che – a dispetto dei puristi, viene usata con consapevolezza e buon gusto, contribuendo non poco ad aumentare la fruibilità di This Land. Un disco di impatto e con arrangiamenti che strizzano l’ochio ai colori del nu-soul (Feed The Babies), del punk surf (Gotta Get Into Something) o addittura al simil reggae (Feeling Like A Million).

MA SONO nuances all’interno di brani che nascono e rimangono profondamente blues. Got To Get Up è in tal senso l’esempio più ardito e riuscito: stralci di bounce music di stampo New Orleans vengono fusi con una ritmica rock, riuscendo comunque a trasportare l’ascoltatore in uno spartano e genuino juke joint mississippiano.