Annunciato con fanfare, il G20 straordinario sull’Afghanistan sembra aver perso pian piano rilevanza, a meno che alla conclusione dell’evento virtuale che si tiene oggi sotto la presidenza italiana del G20, su iniziativa del presidente del Consiglio Mario Draghi, non arrivi qualche notizia clamorosa. Difficile crederlo.

A MENO DI DUE MESI dalla caduta di Kabul e dall’arrivo al potere dei Talebani, la comunità internazionale sta ancora, faticosamente, prendendo le misure. Più che una posizione condivisa, prevalgono le spaccature, i distinguo, i rapporti bilaterali: ciascuno per conto proprio. Ieri, per esempio, a Doha il ministro degli Esteri a interim dei Talebani, il mawlawi Amir Khan Muttaqi, uomo della vecchia guardia e con lunga esperienza diplomatica, maturata durante il primo Emirato, ha incontrato il rappresentante speciale tedesco per l’Afghanistan, Jasper Wieck, oltre che l’ambasciatore tedesco in Afghanistan Markus Potzel, ora in Qatar.

I Talebani, al solito loro, cercano di far passare l’idea che il riconoscimento del loro governo, la cui nascita è stata annunciata il 7 settembre, sia questione di poco.

I DELEGATI STRANIERI, invece, sottolineano che incontrare i Talebani serve a capire come aiutare la popolazione, ma non equivale a riconoscere la legittimità del governo. Al fondo, il dilemma che oggi i partecipanti al G20 straordinario dovranno cercare di risolvere: come aiutare un Paese che rischia il collasso strutturale senza legittimare i Talebani? Nessuno sa bene come fare. E chi si limita a dire «non riconosciamo il governo» non si accorge che si tratta di un punto di partenza, che non risolve i problemi della popolazione, in crisi umanitaria.

DAL G20 USCIRANNO probabilmente posizioni di principio, talmente ampie e generiche da soddisfare tutti. Ma nessuna «roadmap» concreta. Né un impegno finanziario vincolante. Se i Talebani dicono A e fanno B, promettendo di garantire i diritti ma reprimendoli e negandoli dove e quando possono, la comunità internazionale sembra fare un gioco simile. Alla conferenza ministeriale di alto livello convocata il 13 settembre scorso da Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, sono stati promessi 1,2 miliardi di dollari. Pochi giorni fa, lo stesso Guterres ha dovuto alzare la voce: finora è arrivato a destinazione soltanto il 30 per cento della somma totale.

Per qualcuno, il carattere autoritario e repressivo del governo dei Talebani è una scusa per voltare le spalle all’Afghanistan. Qualcun altro, invece, è costretto a fare i conti con i turbanti neri. Vale per l’amministrazione statunitense.

DUE GIORNI FA A DOHA si è tenuto il primo incontro ufficiale dopo il ritiro dell’ultimo soldato Usa, tra il 30 e 31 agosto 2021. Secondo il Dipartimento di Stato, l’incontro è stato «professionale» e la delegazione statunitense si è concentrata su «sicurezza, terrorismo, passaggio sicuro dei cittadini statunitensi, di altri stranieri e dei nostri partner afghani». Certo, anche «dei diritti umani».

L’evacuazione di fine agosto non è ancora terminata. I Talebani sanno di avere nelle mani un capitale con cui negoziare: la vita di centinaia di persone che Washington deve portare o riportare a casa (come l’ostaggio Mark Frerichs). Washington ha invece le leve dei finanziamenti dei donatori internazionali. Oltre alle riserve della Banca centrale afghana, congelate alla Federal Reserve di New York.

Nel gioco delle parti, a rimetterci è la popolazione che ha urgente bisogno di cibo, medicine, soldi, accesso alle strutture sanitarie, istruzione. In un Paese la cui spesa pubblica dipende dall’esterno, a deciderne le sorti è la comunità internazionale.

PER QUESTO LA RETE europea delle Ong in Afghanistan, Enna, ha inviato una lettera aperta ai leader europei per sollecitare lo sblocco dei finanziamenti dell’Unione europea destinati ai programmi di sviluppo. Per ora la comunità internazionale ha evitare di assumere decisioni politicamente difficili dicendosi disposta ad aiutare il Paese con aiuti umanitari, non con gli aiuti allo sviluppo. Ma prima o poi occorrerà indicare strategie concrete, passi istituzionali precisi per non lasciare la popolazione solo nelle mani dei Talebani.