In ogni letteratura si trovano figure considerate eccentriche, inclassificabili, sottovalutate dai contemporanei, che vengono riscoperte dopo la morte, magari a distanza di molti anni. Ce ne sono non poche anche in quella messicana, soprattutto in virtù della polemica nei confronti di una cultura ufficiale che tende al realismo sociale legato ai valori e ai miti della Rivoluzione del 1910. Francisco Tario è uno di questi scrittori bizzarri e fuori dal comune, la cui biografia però contraddice quell’immaginario di povertà ed esclusione sociale che spesso si associa alla marginalità letteraria.

Presenze incorporee

Nato a Città del Messico nel 1911 in una famiglia di origine spagnola che abbandonò il paese proprio durante gli anni della rivoluzione, Tario tornò in Messico all’inizio degli anni Venti, dove cominciò una brillante carriera sportiva come portiere di calcio, fino a diventare uno tra i più promettenti della sua generazione. A ventitré anni, tuttavia, un grave incidente di gioco lo costrinse ad abbandonare lo sport, e dopo avere sposato Carmen Farell, sua compagna e musa per il resto della vita, si dedicò alle proprie passioni intellettuali. Divenne un pianista dilettante ma talentuoso, un gestore di teatri e di cinema, e soprattutto un narratore, sia di racconti sia di un romanzo e di libri di «varia invenzione», tra i quali uno dedicato a Acapulco e illustrato delle foto di Lola Álvarez Bravo, che rinnovava quel dialogo tra parola e immagine derivato, in Messico, dalla lezione di Robert Weston, Tina Modotti e Gabriel Figueroa.

Dopo quindici anni frenetici, Tario tornò in Spagna, dove pubblicò nel 1968 l’ultimo libro di racconti, Una violeta de más, dedicato alla moglie appena scomparsa, che oggi l’editore Safarà propone con il titolo Fra le tue dita gelate (nell’ottima traduzione di Raul Schenardi, pp. 227, € 18,00). Tario sarebbe morto poi a Madrid nel 1977, dimenticato dal mondo letterario messicano, che lo riscoprirà all’inizio del nuovo secolo, grazie alla ristampa dei racconti e all’apparizione di importanti inediti.

Il sottotitolo del volume parla di «racconti fantastici», a segnalare una collocazione tra i generi letterari, che è tuttavia molto dubbia. In tutta l’opera di Tario, infatti, il fantastico si manifesta così palesemente da destare sospetti: sebbene le sue pagine siano popolate di fantasmi e di esseri mostruosi che si muovono in ambientazioni quasi gotiche, queste presenze vengono utilizzate per oltrepassare lo scarto tra una certa realtà fenomenica e perturbanti mondi paralleli.

Presenze incorporee che lottano perché ne venga conservata la memoria, i fantasmi si sentono minacciati dall’oblio, mentre i «mostri» si propongono come esseri deformati dagli sguardi altrui, in qualche modo falsati dai pregiudizi correnti. Mostri e fantasmi travalicano spesso lo spazio onirico e dagli incubi, emigrano in una quotidianità trasformata in qualcosa di grottesco e inquietante, che Francisco Tario descrive con la precisione straniante di un entomologo. La strategia narrativa dello scrittore messicano era stata peraltro introdotta, in un racconto giovanile, da una sorta di allucinata dichiarazione di poetica: «scriverò libri che esporranno con precisione ineguagliabile il grottesco della morte, l’esecrabile della malattia, il risibile della religione, la corruzione della famiglia e la nausea dell’amore, della pietà, del patriottismo e di qualsiasi altra fede o mito. Libri, infine, che strangolino le coscienze, annichilino la salute, seppelliscano i principi e triturino le virtù». Se nelle prime raccolte questo obiettivo veniva raggiunto grazie a una galleria di personaggi segnati dal fallimento e dal patetico, la maturità narrativa dell’ultima raccolta permette a Tario di giungere a una sintesi vertiginosa.

I racconti di Fra le tue dita gelate richiamano ambientazioni e rapporti familiari, abitati da diverse forme del perturbante, da una prospettiva che oscilla tra l’incubo e il sogno. Qui il fantastico si presenta in eccesso, tramite personaggi assurdi e ossessivi, esposti senza infingimenti o tecniche di dissimulazione: un essere minuscolo emerge dalle tubature del bagno e finisce per occupare tutta la casa del narratore, fino a costringerlo all’omicidio («Lo uistitì»), un antropofago cucina un bambino al forno e lo mangia con tanto di condimento appropriato («Ragù di vitello»), una famiglia si prende gioco di uno dei suoi componenti cui manca un dente, spingendolo al suicidio («Ortodonzia») e, nel racconto che dà il titolo al libro, il protagonista assiste al suo funerale, dopo una morte causata dalle macchinazioni della sua sorella-amante. Ci sono poi anche simpatici folli che aspirano a riprodurre il Tour de France in un manicomio, una famiglia di fantasmi costretta a vagare per l’Europa per un sovraffollamento di spettri nella natia Inghilterra, e una donna che elimina il marito distruggendo tutti gli specchi in cui lui amava guardarsi.

Anche le storie più macabre e ripugnanti vengono narrate con un inconfondibile tono ironico, di chiara derivazione surrealista, quello humour nero praticato da Breton e Artaud, che aveva già trovato espressione dal lato rioplatense dell’America Latina, ad esempio in Felisberto Hernández o Silvina Ocampo, o in altri autori eccentrici e fondamentali per lo sviluppo della narrativa del Novecento nel continente. Oltre ad aggiungere un tocco di sarcasmo al macabro, l’umorismo nero di Tario intende provocare quella che Breton chiamava «emozione sovversiva», capace di aprire le porte a rappresentazioni alternative del mondo.

Nei suoi racconti, dunque, lo scrittore messicano propone una sua personale estetica della crudeltà, in cui l’assenza di artifici simbolici nella rappresentazione di un fantastico spinto ai suoi limiti estremi mira a provocare nei lettori una sorta di catarsi rigenerante attraverso un linguaggio nitido, lontano da ogni eccesso, profondamente ironico, che funziona al tempo stesso come un anestetico o una valvola di sfogo di fronte alla crudeltà dell’esistenza.

Uno sguardo irriverente

La marginalità nella quale Francisco Tario venne inizialmente relegato non è dunque solo il frutto di una incomprensione dei suoi contemporanei, o di scelte letterarie lontane da quelle più diffuse, ma di un suo sguardo irriverente che disorienta e sovverte le convinzioni più radicate. Nessuna soluzione alternativa nei racconti di Tario, né morali rassicuranti o nascoste riflessioni filosofiche: dopo aver «strangolato le coscienze, annichilito la salute, seppellito i principi e triturato le virtù», starà al lettore cercarsi una strada, dove la stravaganza non abbia macabre conseguenze.