La sentenza di primo grado del cosiddetto «processo Foodora» è stata parzialmente rivista ieri in secondo dalla Corte d’Appello di Torino.

A marzo fu respinto il ricorso di sei fattorini che contestavano l’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro con Foodora, decisa dalla società dopo le proteste del 2016 per chiedere un trattamento economico e normativo più equo. Il giudice stabilì che i ricorrenti non erano dipendenti di Foodora ma dei lavoratori autonomi, e questo permetteva alla multinazionale della distribuzione del cibo ad interrompere il rapporto di lavoro in qualsiasi momento.

Per i giudici di appello non è così: sostengono inaffti che i «riders» avevano diritto alla parità economica rispetto ai lavoratori subordinati del settore della logistica, con tredicesima, ferie e malattie pagate. La Corte ha riconosciuto «il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione all’attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore di Foodora sulla base della retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del quinto livello del contratto collettivo logistica-trasporto merci dedotto quanto percepito» .

Respinta invece la richiesta di reintegro, si dovrà capire la ragione quando verranno pubblicate le motivazioni della sentenza: rigettate anche le richieste di ulteriori risarcimenti dovuti a supposte violazioni della privacy grazie alle app installate che servivano ad organizzare la distribuzione del lavoro dei fattorini. Un terzo delle spese di lite, che complessivamente tra primo e secondo grado ammontano a poco meno di 30mila euro, dovranno essere risarcite ai cinque ricorrenti.

Per la prima volta in Italia una multinazionale della gig economy è stata condannata a riconoscere stipendio e contributi previdenziali previsti dal quinto livello del contratto collettivo nazionale della logistica e dei trasporti.

Parzialmente soddisfatti i due legali, Giulia Druetta e Sergio Bonetto che hanno seguito la vertenza Foodora, per molti aspetti pilota. Giulia Druetta, dopo la lettura della sentenza: «Da oggi in Italia tutti i fattorini che lavorano per le multinazionali del delivery food hanno diritto a una retribuzione congrua, alle ferie alla malattia, alla tredicesima: è un recupero di civiltà non indifferente, in un contesto storico di innegabile attacco, ormai ultra decennale, ai diritti dei lavoratori. Vogliamo però capire perché non sia stato riconosciuto il reintegro».

«Non è la prima sentenza in Europa – continua la giovane avvocata torinese – ma è un ulteriore passo verso il contenimento dello strapotere da parte di queste multinazionali. A maggior ragione serve un passo politico, legislativo, che porti ad un aumento dei controlli nonché a nuovi strumenti giuridici efficaci e progressivi».

Marco Grimaldi, capogruppo di Leu in Piemonte: «Una prima sentenza contro il caporalato digitale, una vittoria di tanti che in questi anni hanno ribadito che non siamo di fronte a lavoretti ma a lavoro vero. Un primo passo che servirà per tante altre battaglie. L’attuale governo dovrebbe prendere spunto da questa sentenza per superare la sua insussistenza: queste forme di caporalato digitale devono essere stroncate, perché un lavoro intermittente è sempre un lavoro vero da inquadrare dentro i contratti collettivi nazionali. Non c’è spazio per stare nel mezzo, e questa sentenza lo dimostra».