Se ci chiedessero di menzionare il sentimento politico più potente della nostra epoca, nostro malgrado probabilmente citeremmo il terrore collettivo suscitato dagli immigrati. La diffusione di questa paura è tale da aver determinato uno dei mutamenti politici più visibili di questo secolo: una stretta progressiva all’immigrazione regolare. L’indice Demig, a cura dell’International Migration Institute di Amsterdam, segnala sempre più ricorrenti restrizioni nelle politiche migratorie. Dal 2008, dei 36 paesi appartenenti all’Ocse ben 32 hanno irrigidito le procedure di immigrazione legale: tra questi c’è l’Italia, assieme a Francia, Germania, Regno unito, Stati uniti e altri.

Eppure, quanto già fatto non sembra bastare. La destra reazionaria insiste con i vincoli burocratici, i muri di filo spinato e i blocchi navali. E anche tra i partiti cosiddetti liberali si avverte uno spostamento sempre più accentuato verso le politiche anti-immigrazione. Se a giugno liberali e reazionari raggiungeranno un’intesa sul governo europeo, sarà certamente intorno a una lotta ancor più serrata contro lo straniero entrante. Per le sinistre si tratta invece del tema più spinoso, quello su cui è più facile perdere consensi. Uno dei motivi è che la paura degli immigrati ha fatto breccia anche tra le lavoratrici e i lavoratori nativi.

Gli immigrati sono infatti visti come una minaccia «economica», che accresce l’esercito di disoccupati, spinge verso condizioni di lavoro peggiori e salari più bassi, crea pressione sugli affitti, e così via. Queste tesi appaiono ormai talmente consolidate che non mancano sedicenti leader «di sinistra» pronti a incorporarle nei loro programmi.

Le cose, tuttavia, stanno davvero in questi termini? La ricerca scientifica prevalente dice di no. Nei contributi del premio Nobel David Card e di altri esperti in tema, la tesi che l’immigrazione deteriori le condizioni di vita dei lavoratori nativi trova crescenti smentite. I dati indicano che i migranti si recano soprattutto lì dove c’è una forte esigenza di manodopera da parte delle imprese, il che spiega per quale ragione il loro arrivo non risulta correlato a una crescita della disoccupazione. Questo significa pure che gli immigrati vanno soprattutto dove la pressione sui salari non è al ribasso ma al rialzo, il che aiuta a capire perché nemmeno l’idea che l’immigrazione riduca le retribuzioni trova riscontri empirici adeguati. Persino George Borjas – l’economista che venne citato da Donald Trump per difendere il muro di separazione col Messico – porta risultati tutt’altro che univoci, molti dei quali segnalano che l’immigrazione può esser correlata a crescita e benessere dei lavoratori nativi.

Insomma, se guardiamo i dati scopriamo che le politiche di respingimento dei migranti, giustificate con l’intenzione di difendere le condizioni economiche dei nativi, non sono supportate dall’evidenza scientifica.

C’è invece una diversa evidenza che emerge chiaramente dalle ricerche in materia. È quella secondo cui i danni principali alla classe lavoratrice non provengono dai flussi migratori di persone ma derivano piuttosto dai flussi internazionali di capitali. I veri guai, cioè, vengono dal fatto che l’attuale libertà di circolazione dei capitali consente ai grandi possessori di ricchezza di spostare a piacimento i loro denari da un luogo all’altro del mondo, alla continua ricerca di alti profitti, bassi salari e nuove opportunità di sfruttamento del lavoro.

Altro che minaccia migratoria, dunque. Il vero problema, come sempre, sta dal lato del capitale e delle sue scorribande. Anziché inseguire le destre sull’arresto dei migranti, allora, le sinistre potrebbero recuperare la bandiera alternativa dell’arresto dei movimenti internazionali di capitali. Per adesso, tuttavia, di questa opzione non si parla. Le destre continuano a prosperare agitando il mistificante spauracchio dell’immigrazione, mentre sui veri guasti del capitale resta la congiura del silenzio.