Da circa due mesi un film indipendente sulla privatizzazione della sanità pubblica è al centro di un piccolo caso cinematografico. Rifiutato da molti festival e dalla grande distribuzione si sta facendo largo nei cinema, dal sud al nord Italia, a colpi di tutto esaurito al botteghino ad ogni nuova data.

Al termine delle proiezioni spesso le sale si animano con dibattiti che coinvolgono il pubblico ed i protagonisti della pellicola. Non è una novità per i registi Federico Greco e Mirko Melchiorre che nel 2017 avevano vissuto un’esperienza simile con PIIGS.

Questa volta gli autori hanno realizzato un film inchiesta sul tema della sanità, prodotto da Fil Rouge Media, coinvolgendo esperti e intellettuali del calibro di Ken Loach, Gino Strada, Jean Ziegler e Roger Waters.

Cosa avete voluto raccontare con questo nuovo lavoro? Come si lega il discorso di Allende alle Nazioni Unite nel 1972 in cui affermava che era in atto «uno scontro frontale tra le grandi corporazioni internazionali e gli Stati» con un paese sperduto della Calabria?

Federico Greco: C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando è il secondo capitolo di un’ideale trilogia sul neoliberismo. Il primo è stato PIIGS in cui smascheravamo le responsabilità dell’Unione Europea, in questo caso ci siamo concentrati sulla privatizzazione e la cancellazione della sanità pubblica calabrese, italiana e globale.

Il film racconta la storia di resistenza di un gruppo di persone di Cariati, un piccolo paesino sullo Ionio in Calabria, che ha occupato l’ospedale pubblico del paese per ottenerne la riapertura. Unico caso in Italia. Contemporaneamente una schiera di intellettuali, attivisti, medici ed esperti di livello mondiale ci spiega com’è legata questa lotta locale con gli ultimi 50 anni di storia, con Allende, con Reagan, con Thatcher con tutto quello che riguarda i tentativi a livello sovranazionale di impadronirsi degli asset pubblici delle nazioni e quindi di privatizzare sanità, istruzione, trasporti. Tutto è privatizzabile.

Mirko Melchiorre: L’ospedale è stato chiuso circa 12 anni fa a causa delle pressioni dell’Europa attraverso le politiche di austerity. All’epoca ci fu il famoso piano di rientro che in Calabria fece chiudere 18 ospedali dal giorno alla notte e ne fece chiudere più di 270 in tutta Italia. Regioni come la Calabria caddero in una profonda emergenza sanitaria.

Com’è nata l’intuizione per il film?

MM: Siamo venuti a scoprire per caso dell’occupazione mentre eravamo a Crotone dove stavamo svolgendo un lavoro per Emergency, chiamata per aiutare a gestire l’ospedale della città durante la seconda ondata della pandemia. Si è subito instaurato un rapporto con i ragazzi-occupanti dell’associazione Le Lampare, adesso ci consideriamo fratelli. Durante la lavorazione abbiamo seguito un doppio binario narrativo: la micro storia dei ragazzi delle Lampare e la macro analisi degli interessi e dei soggetti interessati a smantellare le sanità pubbliche. Nel film mostriamo come dietro questi interessi ci siano spesso corporation transnazionali che agiscono e svuotano gli stati dei loro asset. È un’operazione che va avanti da oltre 50 anni, per questo partiamo dal genocidio di Giacarta e poi passiamo al golpe in Cile nel ’73. All’epoca queste operazioni venivano svolte in modo sanguinario, con il tempo sono state affinate le tecniche e adesso questi gruppi di potere riescono a raggiungere i loro obiettivi posizionando i loro uomini nei ruoli strategici all’interno delle istituzioni. Questo è accaduto ad esempio con Monti e Draghi in Italia e con Macron in Francia.

Nel film c’è un’analisi dello sviluppo e del declino del sistema sanitario nazionale. La Calabria è un caso paradigmatico?

FG: Uno dei motivi che ci ha spinto a raccontare una storia calabrese è perché la Calabria è una singolarità come i buchi neri, dove non vigono più le leggi universali. Le due ragioni paradigmatiche rispetto alla sanità e al suo smantellamento sono la Lombardia alla Calabria, però in senso opposto. In Lombardia è fortissimo il privato e sempre meno il pubblico, in Calabria non c’è più la sanità pubblica, ma ancora non c’è abbastanza sanità privata. L’esempio macroscopico, se vogliamo andare oltre, sono gli Stati Uniti: l’Italia sta diventando come gli USA dove esistono solo assicurazioni private tranne rare eccezioni.

Uno dei protagonisti del film, quando di fatto si vede negato il diritto alla salute, afferma: «Dobbiamo tornare ad essere briganti». Questa è davvero l’unica possibilità?

MM: Non abbiamo risposte ma dobbiamo cercare di creare un dibattito. Forse quello che serve è provare a lottare e comprendere quanto sia importante la ribellione. I ragazzi di Cariati sono un esempio universale di come attraverso la resistenza si possa provare a cambiare i paradigmi del sistema. Dobbiamo studiare, leggere, informarci. Se non capiamo quello che è accaduto negli ultimi 50 anni, le lotte locali non servono a nulla. Spesso abbiamo invitato Mimmo e a Michele, protagonisti dell’occupazione, a non fermarsi e a cercare di entrare in relazione con tutte le altre realtà che in Italia stanno combattendo per gli stessi diritti anche se in altri ambiti.

È necessario organizzarsi e fare rete, penso ai lavoratori della Gkn a Firenze o a quelli della Whirpool a Napoli. Crediamo che gli artisti, gli intellettuali debbano prendere una posizione. Noi lo abbiamo fatto: stai col capitale, col mercato oppure con le persone? Noi stiamo con le persone e ci sentiamo parte di questa lotta. Non si può costruire nulla dalle ceneri dei partiti esistenti poiché sono responsabili della situazione attuale. Questo film poi ha modificato la realtà grazie all’appello per la riapertura dell’ospedale che Roger Waters ha fatto nel dicembre 2021.

Come è avvenuto il contatto con Waters?

MM: Avevamo intervistato da poco Ken Loach che ci ha messo in contatto con lui. Waters ha capito subito l’importanza del documentario e della lotta dei ragazzi di Cariati e ci ha concesso un’intervista. Ha picchiato giù duro sul neoliberismo e sulle forme di governo neoliberiste, le sue parole ci hanno permesso di unire vari tasselli nel film. A fine intervista gli abbiamo chiesto di fare un appello per i ragazzi dell’occupazione che erano in una fase di stallo. Lui lo ha fatto, lo abbiamo condiviso e ha fatto subito il giro di tutti i media locali e nazionali.

Il finale è aperto, siete fiduciosi sulla riapertura?

MM: Il finale non lo sveliamo ma l’intervento di Waters ha stravolto la storia perché l’occupazione stava finendo con un nulla di fatto. La notizia è esplosa e ha messo spalle al muro la regione che faceva finta di nulla. Il presidente Occhiuto si è impegnato in prima persona per la riapertura. Sono avvenuti due paradossi: il primo è che ha spostato di più l’intervento di una rockstar come Waters di quanto non abbia fatto la politica negli ultimi 30 anni; l’altro è che lo stesso Occhiuto era consigliere del presidente della regione Calabria Scopelliti che aveva chiuso l’ospedale e quindi in qualche modo è responsabile della chiusura.
FG: Quando abbiamo iniziato a girare il film, pensavamo: finirà male. Non ce la fa mai nessuno perché dovrebbero farcela loro? Poi abbiamo iniziato a ripensare l’arco narrativo e il finale lo abbiamo lasciato aperto perché il realismo ci impone di fare attenzione. Al di là delle chiacchiere deve arrivare un decreto specifico per la riapertura. Il fatto che il film sia diventato parte della storia che sta raccontando per me è stata la soddisfazione più grande. Comunque vada il film, per quello che mi riguarda abbiamo già vinto.

Parlavate di una trilogia.

FG: Sì, le ipotesi per il terzo capitolo sono diverse: un approfondimento sul lavoro, un’inchiesta sull’agricoltura e sulle 4 sorelle del grano, un’indagine sul green, oppure un’analisi dei trattati sovranazionali.