Gli anni di governo di Evo Morales in Bolivia sono, almeno al momento, terminati. Il suo lavoro a favore di un maggior riconoscimento delle identità e dei diritti dei popoli indigeni boliviani è però ancora in piedi. La Costituzione promulgata nel 2009, fortemente voluta dal suo partito, il Movimiento al Socialismo (Mas), chiudeva l’epoca repubblicana e dava al Paese la forma di Stato Plurinazionale, proprio con lo scopo di certificare l’esistenza di più gruppi culturali al suo interno. Il testo garantisce usi e costumi indigeni come mai si era fatto prima a ben 36 nazioni indigene esistenti sul territorio, oltre che alla comunità afroboliviana.

IL QUARTO CAPITOLO della Carta fondamentale si intitola infatti Diritti delle nazioni e dei popoli indigeni originari contadini. Al suo interno è previsto il riconoscimento alla gestione autonoma da parte delle nazioni indigene dei territori e dei municipi loro riconosciuti; in essi sono previsti sistemi politici, giuridici ed economici diversi da quello dello Stato centrale così come la conservazione delle tradizioni indigene in campo linguistico, culturale, educativo e persino sanitario. Nella sostanza, queste disposizioni si traducono nei cosiddetti Gaioc, ovvero i Gobiernos Autonomos Indigenas Originarios Campesinos (Governi autonomi indigeni originari contadini).

Come funzionano le Gaioc? Ne abbiamo parlato con due esperti: Enrico Buono, fresco dottorato in diritto comparato con tesi sulla Costituzione boliviana del 2009 all’Università della Campania, e Alvaro Deuer, politologo di La Paz che ha lavorato per anni nel Servizio statale boliviano per le autonomie.

 

Evo Morales a una cerimonia di ringraziamento per Pachamama nell’antica cittadina di Tiahuanaco (Afp)

 

Per prima cosa Deuer ci aiuta a mettere la questione in una prospettiva storica. «La lotta per l’autonomia indigena in Bolivia viene da lontano ed è fatta soprattutto di varie insurrezioni. Una delle più importanti fu quella guidata da Pablo Zarate detto Willka, che nel 1899 pretese l’istituzione di governi indigeni. Fu seguita da diverse altre; tra le più recenti va ricordata quella degli anni ’80 e ’90 guidata dal leader aymara Felipe Quispe, che chiedeva la ricostituzione dell’antica regione inca del Kollasuyo e la sua autonomia all’interno della Bolivia secondo i propri usi e costumi. All’epoca era suo compagno di armi e di idee anche l’ex vicepresidente di Evo Morales, Álvaro García Linera».

«Negli anni ’90 – prosegue Deuer -, a seguito di pressioni provenienti anche dalla parte amazzonica del Paese, vengono istituite le Tierras Comunitarias de Origen (Terre comunitarie originarie, Tco), una prima forma di riconoscimento ufficiale di usi e costumi indigeni da praticare in precise aree del Paese».

MA PER MOLTI INDIGENI ciò non era abbastanza. Il sindacalista dei coltivatori della pianta di coca, Evo Morales, riesce a cavallo tra gli anni ’90 e 2000 a catturare le domande di maggiore autonomia indigena con il suo Mas. Insieme a García Linera, ora dalla sua parte, vince le elezioni del 2005 (in cui si candidava, prendendo meno del 3%, anche Quispe) e promuove l’idea di una nuova Costituzione, che viene promulgata nel 2009. A detta di Buono, essa «è una delle più avanzate del mondo in tema di autonomie territoriali indigene, quantomeno in ciò che promette».

Buono, che ha vissuto in Bolivia tra agosto e ottobre 2017 per studiare sul campo questa materia, ritiene però l’applicazione finora concretizzata di questo testo poco soddisfacente. «Di 20 richieste di autonomia fatte finora ne sono state soddisfatte solo quattro», spiega. E in ciascuno dei territori in questione, che interessano complessivamente qualche decina di migliaia di persone, si parla una lingua diversa e ciascuno ha proprie caratteristiche culturali. «Ma hanno un funzionamento istituzionale abbastanza simile – spiega Buono -: Le deliberazioni delle assemblee locali avvengono tendenzialmente all’unanimità, perché si ambisce a ricercare la concordia e l’armonia. E spesso lo stesso organo che prende decisioni amministrative dispone anche su questioni giuridiche, che hanno lo stesso valore delle leggi dello Stato».

QUESTE COMUNITÀ possono dunque comminare pene a chi ne infrange le regole in alcuni ambiti di diritto penale e in parte del diritto civile (ad esempio, è escluso dal diritto comunitario la punizione dell’omicidio, riservata alla legge statale). A tale giurisdizione non ci si può appellare presso lo Stato se non per denunciare eventuali conflitti di attribuzione. «Ma non si tratta di punizioni detentive. Le sanzioni seguono il principio della reciprocità, ayni in lingua Aymara: si chiede a chi ha sbagliato di riparare facendo qualcosa per la comunità, così da ristabilire l’armonia fra il reo e la comunità stessa», dice ancora Buono. Una sorta di pena direttamente riabilitativa, potremmo dire noi.

Per capire meglio questo aspetto, Deuer ci fa l’esempio illustre di Felix Patzi, ex ministro dell’Educazione di Morales che si è poi candidato alla presidenza nel 2014 e nel 2019 contro lo stesso Mas: «Patzi nel 2010 fu trovato ubriaco al volante. Era la terza volta che succedeva, ma questa volta mentì dicendo che era ubriaco per aver bevuto durante un rituale funerario indigeno come da tradizioni, mentre invece aveva passato una sera come tante con amici. La provincia Aroma, in cui è nato e cresciuto, gli impose di costruire 1000 mattoni in terra cruda per riabilitare il suo buon nome e quello della comunità».

PERÒ NON BASTÒ per recuperare la fiducia del suo partito che, oltre a non candidarlo più come presidente della regione di La Paz come programmato, lo espulse («Secondo me ciò avvenne anche perché insidiava la leadership di Morales nel Mas», ci tiene ad aggiungere Deuer). Va detto che la provincia Aroma non era e non è un Gaioc, ma come spiega Buono, «la giustizia comunitaria può essere riconosciuta ex post anche nelle Tco e ovunque ne viga l’uso; nelle Gaioc c’è però una codificazione precisa che coordina legge dello Stato e legge comunitaria ex ante, ovvero prima della loro applicazione».

 

Morales in abiti cerimoniali indigeni (Afp)

 

Solo quattro territori sono oggi Gaioc perché il processo di conferimento dell’autonomia è piuttosto lungo. Funziona così: le comunità devono prima redarre lo statuto, che deve essere poi approvato dal servizio statale per le Autonomie; se arriva il via libera, si passa al referendum interno. Qualora il referendum, supervisionato dal tribunale elettorale, lo approvi, esso dovrà essere sottoposto a giudizio di conformità presso il tribunale costituzionale. In quasi tutti questi casi, come ci hanno raccontato sia Buono che Deuer, lo Stato non ha convalidato gli statuti; in un caso, nel municipio di Carangas, è stato perso il referendum interno.

«QUESTO PROCESSO, oltre ad essere molto lungo, finisce anche per limitare fortemente le possibili competenze indigene, e ciò è stato anche criticato dall’Alto commissariato Onu per i Diritti umani», come spiega Buono. L’Unhcr avanzo questo tipo di osservazione in un documento del 2011.

Altra voce di disapprovazione nei confronti di queste modalità si è levata dalla sociologa andina e boliviana Silvia Rivera Cusicanqui, da sempre dalla parte della causa indigena ma oppositrice del governo di Morales. Rivera Cusicanqui ha sostenuto che il Mas attraverso queste complicate procedure stesse esercendo un potere eccessivo sulle comunità indigene. Una critica che anche Deuer fa propria: «Il Mas non vuole concedere una vera forma di democrazia diretta, perché è qualcosa che toglie potere ai suoi dirigenti».

AD OGNI MODO, pur biasimando il controllo molto stringente che lo Stato ha imposto sulle Gaioc limitando fortemente gli ambiti di applicazione del diritto comunitario, sostanzialmente ridotto a materie residuali, Buono le ritiene un parziale successo: «I dati disponibili ci dicono che le autonomie riescono a gestire in maniera efficiente risorse e sistemi istituzionali». Deuer invece ha un giudizio meno positivo e crede che «lo Stato dovrebbe assistere maggiormente le autonomie per aiutarle a gestirsi e rafforzare le loro capacità istituzionali».