Non è altro che una lotta di potere quella che, all’interno del Movimento al socialismo (Mas), stanno combattendo l’ex presidente Evo Morales e quello attuale Luis Arce. Una lotta, neppure nobilitata da ideali politici, che si trascina da più di due anni in mezzo ad attacchi reciproci sempre più violenti, e di cui oggi si consuma l’ennesimo capitolo: quello dei blocchi stradali promossi a partire da lunedì dagli “evisti” contro la continuità in carica dei magistrati del Tribunale costituzionale plurinazionale (Tcp) e per l’immediata convocazione delle elezioni della magistratura.

Previste dalla Costituzione ogni sei anni, le nuove elezioni si sarebbero già dovute svolgere a dicembre, ma, a causa soprattutto della mancanza di volontà politica del governo Arce, il processo di preselezione dei candidati è rimasto bloccato in parlamento, obbligando a estendere il mandato dei giudici in carica.

Ed è proprio contro la proroga del mandato del Tcp che si oppone quella parte del Mas rimasta fedele a Evo Morales, trattandosi della stessa corte che ha decretato l’incostituzionalità di una sua nuova candidatura. In una sentenza aspramente contestata dagli evisti, i magistrati hanno infatti stabilito che il presidente e il suo vice possono esercitare solo due mandati, continui o discontinui che siano, e che la cosiddetta «rielezione indefinita» non è un diritto umano.

Decisione, questa, peraltro sorprendente, dal momento che erano stati gli stessi giudici, evidentemente sempre molto inclini a far contento il governo di turno, ad autorizzare la ricandidatura alle elezioni del 2019 del già tre volte presidente Morales proprio in quanto diritto umano garantito dai trattati internazionali, ignorando la volontà degli elettori che, nel 2016, avevano già bocciato la possibilità di un ulteriore mandato (in linea peraltro con l’articolo 168 della Costituzione del 2009).

Come poi siano andate le elezioni del 2019, con le accuse di brogli, il golpe e il governo de facto di Jeanine Áñez, è storia nota. Ma da allora Morales non ha pensato che a riprendersi il governo, ottenendo lo scorso ottobre, da un congresso del Mas a cui hanno preso parte solo i suoi sostenitori – e per questo successivamente annullato dal Tribunale supremo elettorale – la sua proclamazione come “candidato unico” per le presidenziali del 2025. «Mi hanno obbligato ad accettare la candidatura», ha spiegato lui.

Ma la rottura con Arce, forse, era già scritta in quella pagina gloriosa che era stata la vittoria del popolo abbandonato dai suoi leader – i quali, con Evo in testa, se l’erano data a gambe al momento del colpo di stato – contro le forze golpiste. Quella vittoria, che era del popolo molto più del Mas, Morales l’aveva del tutto fraintesa, tornando dal suo esilio come fosse lui il trionfatore, dopo aver imposto, contro la volontà della base, il suo ex ministro dell’economia come candidato presidenziale. E commettendo un secondo grave errore: pensare che Arce avrebbe continuato a comportarsi come suo ex ministro in attesa di restituirgli la presidenza nel 2025.

Incurante dei tanti che, all’interno del Patto di Unità, la coalizione dei movimenti su cui poggia il Mas, prendevano a gran voce le distanze dalla vecchia dirigenza, Morales si è lanciato a testa bassa alla riconquista del potere, scontrandosi prima con l’entourage del presidente, poi con il vice Choquehuanca, amato dalla base e quindi pericoloso, e infine con lo stesso Arce. E persino rompendo con il suo un tempo inseparabile vice Álvaro García Linera, colpevole di aver espresso tristezza e indignazione per i conflitti «tra compagni».