In Italia sulla politica monetaria si è europeisti solo quando conviene, cioè quando c’è da prendere, meno quando ci sarebbe da dare. Almeno sul piano delle dichiarazioni ufficiali. Se a Francoforte si mantiene la politica monetaria accomodante, attraverso Quantitative easing e bassi tassi d’interesse, allora tutti stanno con la Banca centrale, ma se questa propone regole più stringenti sui crediti deteriorati in possesso delle banche allora si sollevano dubbi da ogni parte, compresi il ministro dell’Economia e il governatore di Banca d’Italia.

Sono anni, ormai, che la Bce attraverso il suo pompar moneta nel sistema ha salvato l’eurozona, tanto che recentemente Mario Draghi ha potuto affermare lapidario che la politica monetaria crea sempre delle distorsioni «ma se il risultato è creare 7 milioni di posti di lavoro in 4 anni, allora queste distorsioni si possono anche ignorare».

Musica per le orecchie di tutti i paesi periferici attanagliati tra debiti sovrani al limite della sostenibilità ed elevata disoccupazione. Dentro il Consiglio direttivo della Bce da tempo si protrae uno scontro tra una maggioranza di cosiddette «colombe» capitanate da Draghi stesso e i pochi «falchi» capeggiati dal presidente della Bundesbank Jens Weidmann.

In alcuni passaggi la politica espansiva è stata criticata addirittura dal solo rappresentante tedesco. Contestualmente alla conferma di politiche espansive anche dopo un’eventuale fine del Qe, con il protrarsi a lungo di tassi molto bassi, il Consiglio di Vigilanza della Banca centrale, organo consultivo, avanza una proposta per ridurre l’incidenza dei crediti deteriorati.

Una proposta che individua una sorta di tabella di marcia per la loro riduzione, attraverso un piano obbligatorio che ridurrebbe la discrezionalità di ogni istituto.

Da fonti governative, datoriali e sindacali, si paventa il rischio di un aumento dei costi per il credito che finirebbe per gravare soprattutto sulle piccole e medie imprese.

Come sottolinea il ministro alle attività produttive Carlo Calenda, «mentre da una parte la Bce sta facendo una manovra di immissione massiccia di liquidità, dall’altra le regole sul credito si restringono».

Qualcuno potrebbe obiettare che le due cose non si escludono, anzi risultano complementari, finendo per mettere in luce i limiti delle politiche italiane che in questa finestra temporale di alleggerimento monetario non sono ancora state capaci di porre rimedio al debito pubblico e ai crediti deteriorati, entrambi notevolmente superiori alla media continentale.

Il nodo del contendere, seppur spesso sfumato o celato, sembrerebbero i tempi e l’efficacia delle politiche economiche.

L’Italia, pur avendo assunto le logiche austeritarie come imprescindibili, non riesce a praticarle fino in fondo (come del resto molti altri paesi al di là della volontà politica del governo di turno) e chiede tempi lunghi per il risanamento che dovrebbe attuarsi grazie al consolidamento della propria modesta crescita.

L’Europa, dal canto suo, giudica la crescita insufficiente per risolvere i problemi strutturali e chiede una più decisa sterzata per prepararsi a una possibile nuova crisi, che sebbene non sia dietro l’angolo non può essere esclusa anche in relazione all’inondazione di liquidità messa in campo per curare la crisi appena passata. A ciò si aggiunga la prevedibile incertezza sul piano strettamente politico, ben fotografata dalla ricerca spasmodica di un sistema elettorale sempre più a-democratico.

La preoccupazione è quella che, di fronte a un peggioramento del contesto economico-finanziario, l’Italia possa risultare uno degli anelli deboli a livello sistemico. Difficile orientarsi in un dibattito dove apparentemente tutti hanno ragione, ma nessuno prova a uscire dai dogmi del rigore e della crescita anemica in cui le società vengono progressivamente strangolate.