«Dopo le elezioni europee avremo a che fare con tutt’altra Europa», tuonavano i capipopolo nazionalisti alla vigilia e all’indomani del voto, sbeffeggiando la Commissione in scadenza e le sue raccomandazioni, ventilando un radicale rovesciamento dei rapporti di forza. A rovesciarsi, di schiena, sono stati per ora solo i più precari tra gli europarlamentari, la villana pattuglia dei deputati di Nigel Farage. Il governo europeo partorito dalle trattative tra gli stati nazionali, quelli che contano al centro e, tutt’intorno, le piccole vendette, le millanterie, le penose furbizie degli altri, Italia in prima fila, è in rigorosa continuità , un po’ spostata a destra, con quello che lo ha preceduto.

Due donne ai massimi vertici (Commissione e Bce), certo, ma «di ferro» si affrettano tutti ad aggiungere, secondo quella usurata retorica che non rinuncia a sottolineare un tagliente elemento di durezza. Ma, aldilà dei generi e delle appartenenze, è il dirigismo liberista in tutto il suo rigore a confermarsi sul ponte di comando, laddove è l’asse tra i popolari e la componente liberale a farla da padrone, conquistandosi anche, con il premier belga Charles Michel, la guida del Consiglio d’Europa. Del resto, il cosiddetto asse franco-tedesco, una volta sollevato il velo delle bandiere nazionali, altro non è che il patto, questo sì «di ferro», tra il liberalismo economico e il conservatorismo politico. Il primo accentuato dalla «marcia» di Macron, il secondo destinato a irrigidirsi col tramonto dell’era Merkel. Mai confidare troppo, una volta arrivati al potere, nella fedeltà di delfini e delfine alle politiche d’un tempo. La destra più radicale, esclusa, almeno per ora, dall’esercizio di un potere diretto, svolge intanto la sua funzione quasi strutturale di rendere più digeribile a tutti le politiche della destra «moderata». Meglio Macron di Le Pen, è la formula esemplificativa di questa triste alchimia della paralisi.

In ogni modo il coniglio uscito dal cappello di Bruxelles ha due orecchie ben distinguibili. La prima è la totale irrilevanza dei processi democratici nella formazione dell’esecutivo europeo. Non si tratta certamente di una novità, ma dopo i fiumi di chiacchiere riversati sull’argomento lo spettacolo fa nondimeno una certa impressione. La partita giocata tra governi nazionali ed élites economiche non contempla altri partecipanti.

La seconda, anche questa nella scia di una tendenza da lungo in atto, è l’inesorabile tramonto delle socialdemocrazie europee, di fatto tagliate fuori dal governo dell’Unione. La scartina lasciatagli in mano è l’inesistente politica estera europea affidata al socialista spagnolo Josep Borrell. Non c’è da stupirsi, dunque, delle reazioni a dir poco indispettite da parte degli ex leader sconfitti della Spd, da Sigmar Gabriel a Martin Schulz, che denunciano la scomparsa di qualsivoglia possibilità di democratizzazione della Ue dall’orizzonte politico europeo. Aleggia, fra l’altro, la minaccia di vendicarsi ponendo fine alla Grosse Koalition. Ma si tratta oramai di un tardivo e tedioso «Al lupo! Al lupo!»

Sebbene entrambe le grandi famiglie politiche che avevano fino ad oggi determinato, confondendosi sempre più tra di loro, gli equilibri politici dell’Unione, siano state sanzionate dai risultati delle ultime elezioni, è soprattutto quella socialdemocratica a farne oggi le spese. Avendo più di ogni altra formazione politica deluso le aspettative dei suoi sostenitori. Ed essendosi sostanzialmente dimostrata incorreggibile.

Dalla porta del governo europeo sono stati tenuti fuori anche i verdi, nonostante la loro imponente avanzata e la fortuna crescente dei temi su cui si battono presso l’opinione pubblica del Vecchio continente. Sulla verde Ska Keller, grazie ai patti stretti tra socialisti, popolari e liberali, la spunta il piddino David Sassoli che va a sostituire alla Presidenza del Parlamento di Strasburgo un altro gigante della politica italiana, il forzista Antonio Tajani. Resta da vedere se e quanto il medesimo Parlamento riuscirà a imprimere qualche deviazione e opporre qualche ostacolo a un percorso già tutto scritto nelle cancellerie e nei palazzi della tecnocrazia europea. Ma non ci sono da farsi troppe illusioni. L’Unione e l’europeismo tengono, ma saldamente ancorati alle politiche e alle procedure che li hanno resi invisi a un numero crescente di cittadini europei.