In persiano «MeToo», «anche io», si dice «man ham». Alla fine di ottobre dell’anno scorso, mentre migliaia di donne da diversi Paesi del mondo condividevano sui social le loro esperienze di molestie sessuali e comportamenti inappropriati rispetto al loro corpo, l’attrice iraniana Anahita Hemmati postava su Instagram un selfie scandendo con un hashtag quelle stesse parole.
Scriveva «anche io». Niente di più. Come lei, altre donne iraniane hanno partecipato a un racconto collettivo contro un sistema di potere sconfinato che fa del corpo delle donne oggetto di attenzioni e abusi non graditi e mai richiesti. In Iran, però, quel «man ham» non è diventato virale, ovvero non si è trasformato in un fenomeno massiccio e largamente diffuso.

E non perché non esistano esperienze o riflessioni di questo tipo, anzi. Ne ho parlato a lungo con Fatemeh Sadeghi, ricercatrice esperta di questioni di genere, con un dottorato in Scienze Politiche, che vive attualmente a Teheran. Sadeghi dieci anni fa ha scritto un articolo in cui criticava l’obbligatorietà del velo e ciò le è costato una valanga di critiche e l’allontanamento dall’università in cui insegnava.
«Il movimento MeToo è stato principalmente virtuale in Iran. Attiviste iraniane che adesso vivono fuori dal Paese hanno scritto in supporto di esso, probabilmente anche altre donne all’interno hanno condiviso episodi di vita su internet, ma di certo non è stato un fenomeno di larga portata. In questo momento scardinare pubblicamente i tabù di natura sessuale è troppo per la società iraniana. Siamo concentrati sui diritti e sul velo. È una questione di priorità. Non intendo dire che non esistano sensibilità di questo tipo, legate alla sessualità, anzi». Dunque, quali sono le priorità delle iraniane oggi? E in che termini il coro fatto di singoli piccoli atti di coraggio e di voci è arrivato in Iran? Come è stato percepito?

Il punto di incontro (virtuale) tra quel MeToo denunciato attraverso la tastiera di un telefono o di un computer e le esperienze delle iraniane è stato viale Enghelab.
Proprio tra le macchine della strada della Rivoluzione a Teheran, negli ultimi mesi alcune giovani donne si sono scoperte la testa. Hanno deciso di togliersi il velo in segno di protesta, lo hanno appeso a un bastoncino, facendosi riprendere per poi diffondere le immagini in rete.
«Il cuore di entrambe le rivendicazioni è lo stesso: il corpo. Le ragazze di viale Enghelab hanno iniziato a rivendicare diritti sui propri corpi contro il controllo che lo stato e la società esercitano su di essi. Così, la protesta contro l’obbligatorietà dell’hejab rappresenta una sorta di trait-d-union con il movimento MeToo nato in Occidente. Questo, però, non significa che ci sia una diretta connessione tra le azioni delle ragazze di viale Enghelab e quelle legate al MeToo», chiarisce Sadeghi.

Esiste, però, una prospettiva globale per le donne che lottano contro ogni tipo di intervento di appropriazione o controllo dei loro corpi.
La lotta contro l’hejab, considerato una colonna della Repubblica islamica fondata dopo la rivoluzione del 1979, non rappresenta in sé una battaglia contro la religione, bensì un momento cruciale per l’affermazione della libera scelta delle donne.

E ancora: nonostante le battaglie per l’affermazione dei diritti femminili in Iran non siano un fenomeno recente, le modalità di queste ultime rivendicazioni hanno delle peculiarità uniche, perché per la prima volta dopo la repressione delle istanze e delle organizzazioni femministe seguita all’ascesa di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza nel 2005, le donne (soprattutto giovani) stanno esprimendo con forza se stesse e le loro richieste, non più solo in ambienti privati o virtuali, ma all’interno dello spazio pubblico.
«Ciò che sta accadendo adesso, con queste modalità, non ha precedenti», spiega Sadeghi. Queste pratiche di resistenza, assolutamente in trasformazione, vanno – dunque – ben oltre il movimento MeToo.

Seppur potenti, soffrono probabilmente di anni di individualismo forzato o di disabitudine alle azioni collettive, per ragioni profondamente legate alla storia recente dell’Iran.
«Adesso le donne reclamano più potere rispetto alla conduzione delle loro vite. Dunque sono più femministe della vecchia generazione? Sono collettivamente più consapevoli e maggiormente connesse con il movimento femminista globale o anche solo con altre attiviste all’interno dell’Iran? No, assolutamente. Sebbene esprimano se stesse e le loro rivendicazioni siano femministe (chiedono di avere pieno controllo dei loro corpi e delle loro vite), ciò non significa che queste istanze siano consapevolmente femministe. Asef Bayat lo definirebbe femminismo “ordinario”, “comune”, ovvero appartenente alla vita di ogni giorno», continua Sadeghi.

Dunque, se l’uso della parola femminismo in qualche modo presuppone una consapevolezza di genere e una conoscenza delle dinamiche in cui il genere viene costruito socialmente, oggi probabilmente in Iran è la consapevolezza di essere e poter essere collettività che manca a molte donne.

La società si è trasformata e spesso succede che le femministe della vecchia generazione non conoscano neanche le più giovani. Queste ultime, invece, agiscono in modo praticamente indipendente e comunque sganciato dalle reti di attivismo formali pre-esistenti.

In particolare, dopo le proteste dell’Onda verde del 2009 i network formali delle donne sono quasi tutti scomparsi, molte femministe hanno dovuto lasciare il paese, altre organizzazioni si sono estremamente indebolite. A questo si sono aggiunti i problemi legati alla sicurezza, all’interno di un contesto che resta comunque autoritario, nonostante alcuni passi avanti degli ultimi anni.
Infatti, essere parte di un movimento o di una rete femminista potrebbe essere considerato una minaccia dalle autorità e quindi diventare rischioso per le donne. Anche per queste ragione internet ha avuto un ruolo determinante, almeno come cassa di risonanza di alcune voci. Più difficile è stata una lettura profondamente femminista dei saperi.
Tanto il cyber-feminism quanto quello di strada è profondamente cambiato, allontanandosi dalle esperienze più strutturate e consapevoli dei primi anni Zero, come i siti web Zanan-e Iran o Meydan-e Zanan («Le donne dell’Iran» e «La piazza delle donne»), ovvero progetti più vicini alla formazione di Sadeghi.
Insieme alla questione hejab al cuore delle istanze delle iraniane oggi (come ieri, ma forse ancora di più), c’è l’uguaglianza davanti alla legge. Per l’8 marzo sui social è circolato l’hashtag «#barabar ba man», «uguale a me».
Questo esempio apre una riflessione più ampia: se la questione è chiara quando si parla di diritti, diventa più spinosa quando si evoca la parità su tutti i fronti.
L’Iran vanta una società in cui più del 60 per cento delle studentesse universitarie sono donne, eppure i numeri della disoccupazione femminile sfiorano il 20 percento.
Significa che nel processo di affermazione delle donne è complesso superare la questione parità, e non solo quando si parla di diritti. Quindi ancora la definizione della donna, nei racconti anche di tante iraniane, avviene rispetto a un parametro maschile. Sadeghi, però, chiarisce: «Di sicuro abbiamo bisogno di un movimento che si basi sulla differenza e non solo sull’uguaglianza. È chiaro che vogliamo parità di trattamento legale, ma questo non vuol dire che vogliamo essere uguali agli uomini (…)E ciò che conta è che le ragazze più giovani facciano qualcosa per loro stesse».
Ovvero per liberarsi da sole, anche guardando a ciò che succede fuori dalle loro reti sociali di riferimento che, come per tante altre donne in giro per il mondo, significa combattere contro lo status quo e il cosiddetto stato «naturale» delle cose.