Nel nostro paese infuriano le questioni di fiducia mentre si affacciano le ghigliottine parlamentari. E si registra una qualche titubanza dei garanti – politici e giuridici – della Costituzione. Non è compito solo loro, ma per loro è missione costitutiva. Il Capo dello Stato non ha speso una parola sul protrarsi del ritardo parlamentare dopo i due rinvii della Consulta: 18 mesi di silenzio. Sempre il silenzio è stato riservato all’intervento del Governo con decreto legge. Inevitabile il terzo silenzio, in sede di promulgazione della legge di conversione.

Quanto alla Consulta, poteva fare meglio (in termini di tassatività) e poteva farlo prima (dal 22 ottobre 2019). Bisognerà comunque interrogarsi sui limiti di accertare senza dichiarare una incostituzionalità, dando tempo al legislatore per intervenire. Siamo al triplete: suicidio assistito, carcere ai giornalisti e ora regime ostativo/ergastolo. Nei primi due il legislatore ha messo la testa sotto la sabbia. Nel terzo no. Che fare alla Consulta? Mettersi in vigile attesa dovesse ricapitare un caso propizio, tirare il freno a mano, compiacersi del risultato ottenuto?

Come che sia, oggi registriamo un dato: qualunque detenuto ostativo, nel momento in cui domanda qualsiasi beneficio/misura alternativa, dovrà essere valutato nel merito. Prima, la domanda era destinata al cestino della inammissibilità, se non si prestava utile collaborazione con la giustizia. Oggi, benefici e misure alternative devono essere meritati nel merito, senza che possa valere come assoluta preclusione la scelta di non collaborare utilmente con la giustizia. Da un punto di vista sostanziale, non esiste più il doppio binario: non mi pare poco.

In soldoni lo chiedevano Strasburgo e Consulta. Peraltro, poteva andare molto peggio. Abbiamo rischiato il trasferimento della competenza in tema di ostatività ad un solo tribunale di Sorveglianza, quello di Roma. Così come sembrava certa la competenza collegiale distrettuale anche sui permessi. Eravamo rimasti in quattro gatti a sostenere che permesso e magistrato monocratico sono simbiotici. In molti di più avevamo difeso il salvagente della collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, la complicata posizione di coloro che magari avrebbero anche collaborato ma non lo potevano comunque fare per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità o per la limitata partecipazione al fatto. Anche in questo caso ci si può ritenere soddisfatti, sempre che si capisca veramente l’antropocentrismo costituzionale a fondamento del diritto al silenzio.

E se poi la mole di informazioni e di pareri, che oggi bisogna verificare al fine di contribuire al giudizio della sorveglianza sulle istanze, riuscisse realmente a funzionare, avremmo poco da recriminare: il giudice non è un veggente, piuttosto uno scrupoloso geologo che, paziente e tenace, scava per scovare il minerale prezioso, senza disinteressarsi di niente. Sempre che protocollizzare non finisca per significare standardizzare. Del resto: chi avrebbe scommesso un euro sull’eliminazione dai reati ostativi di tutti quelli contro la pubblica amministrazione? Si poteva fare di più, ma meglio una pulce oggi che un dinosauro domani.

Sia chiaro. Non siamo passati dall’inferno al paradiso. Alzare da 26 a 30 gli anni di pena scontata per domandare la liberazione condizionale, così come da 5 a 10 gli anni della libertà vigilata, significa riferirsi agli ergastolani ostativi in modo codardo – non si chiarisce se la riforma abbia effetto retroattivo, lasciando la soluzione ai giudici (che poi saranno criticati!) – e incostituzionale, poiché l’esercizio di una libertà, quella di non collaborare, non può ingenerare nessun effetto deteriore. In definitiva: siamo un paese quasi normale.