Ancora prima dei risultati definitivi, arriva il clamore dei clacson. A Kasımpaşa, il quartiere di Istanbul dove Recep Tayyp Erdoğan è nato e cresciuto, i sostenitori del presidente della Turchia appena rieletto non esitano a farsi sentire: automobili e scooter bloccano le strade, decine di persone si radunano sotto la sede del partito di governo sventolando bandiere e brandendo qualche fumogeno mentre scandiscono ad alta voce il nome del reis.

Con il 52,02% delle preferenze contro il 47,98% ottenuto dallo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu del partito repubblicano-kemalista Chp (sostenuto da una coalizione di sei partiti, tra cui anche le forze filo-curde dello Yeşil Sol Parti), il leader dell’Akp conferma al ballottaggio i risultati del primo turno e resta alla guida del paese, dopo oltre vent’anni di gestione del potere.

NON SONO BASTATI il terribile terremoto dello scorso febbraio e la crisi economica che “morde” la popolazione da diversi mesi: il consenso che Erdoğan ha saputo costruirsi e “cementare” nel corso del tempo, anche con politiche sempre più accentratrici e autocratiche soprattutto in seguito al tentativo di colpo di stato del 2016, appare solido e difficilmente scalfibile, per quanto in calo (una flessione di circa il 10% rispetto alle tornate passate, senza contare le elezioni locali di quattro anni fa in cui l’Akp ha perso le città principali).

La campagna elettorale tra il primo e il secondo turno ha visto il candidato dell’opposizione provare a “cambiare passo”, con l’utilizzo di un linguaggio più duro e diretto ma soprattutto con l’insistenza su temi “appetibili” per l’elettorato più nazionalista. Nei video e negli slogan circolati in queste ultime due settimane, infatti, il leader del Chp ha promesso di rimpatriare i rifugiati siriani presenti nel paese (circa 3milioni e mezzo, secondo le registrazioni ufficiali).

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La strategia era, con tutta evidenza, quella di attirare i voti del terzo candidato alle presidenziali, l’ultra-nazionalista ed ex-membro dell’Mhp Sinan Oğan, il quale ha annunciato il proprio supporto per il presidente uscente, contrariamente a quanto invece hanno fatto alcune delle sigle della coalizione che lo aveva sostenuto al primo turno, che si è così spaccata nei giorni scorsi. Se rispetto al voto dello scorso 14 maggio il divario si è accorciato, non è detto che una tale strategia non sia stata in realtà controproducente: nelle zone dell’est, infatti, l’affluenza è calata dall’81,7% al 76,7%, segno che probabilmente la maggioranza curda della zona non ha gradito la svolta retorica.

AL DI SOTTO degli appelli al “cambiamento” dunque, che certamente riguardano differenze non di poco conto in merito all’assetto istituzionale del paese (un “ritorno” della centralità del parlamento contro un presidenzialismo ancora più spinto) e ai valori fondanti della repubblica (laicismo kemalista contro il filo-islamismo dell’Akp), l’andamento di questa tornata elettorale ha mostrato un forte spostamento “a destra” della società turca, probabilmente più chiusa e intimorita per via dei già citati eventi negativi del terremoto e dell’inflazione galoppante.

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«Credo che la crisi dei prezzi abbia giocato in favore di Erdoğan», commenta la parlamentare dello Yeşil Sol Parti Sevilay Çelenk, che raggiungiamo per telefono a Diyarbakır (“capitale” delle regioni a maggioranza curda) e non fa mistero della frustrazione che in questo momento investe lei e tutti i suoi compagni di partito. «È come se si fosse creata la sensazione che la nostra economia fosse talmente a pezzi da non poter reggere un cambiamento politico. La società in Turchia comunque è fortemente polarizzata, a causa della retorica governativa che criminalizza costantemente le forze di opposizione, e le elezioni si sono svolte come al solito in un contesto in cui media e canali di comunicazione sono quasi tutti in mano all’Akp».

Non va dimenticato infatti che, in avvicinamento al ballottaggio, c’è stato un ulteriore giro di vite nei confronti delle forze filo-curde: in meno di una settimana, secondo l’agenzia di stampa Mezopotamya, si sono verificati 177 arresti di persone curde tra cui dodici musicisti che si erano esibiti durante la campagna elettorale dello Yeşil Sol Parti (già il 25 aprile oltre cento persone curde erano state detenute, fra giornalisti, avvocati, artisti, politici e attivisti per i diritti umani).

Gazete Duvar, inoltre, nella giornata di oggi ha segnalato l’aggressione di osservatori dell’opposizione e avvocati presso alcuni seggi, mentre l’agenzia Medya News ha riferito di sostenitori della coalizione di governo che alla chiusura delle urne si sono riversati ai seggi creando tensione, scontrandosi anche con le forze dell’ordine presso il Mualla Selcanoğlu a Istanbul. Ma in generale, sia al primo turno che al ballottaggio, le elezioni sembrano essersi svolte in maniera regolare e senza episodi significativi di brogli o scorrettezze.

«È DIFFICILE dire cosa succederà da qui in avanti», ci spiega il ricercatore e analista turco Can Evren. «Nonostante la vittoria ottenuta, questi risultati comunque confermano che il sistema di potere di Erdoğan è in declino. Si tratta, però, di un declino che è stato astutamente rallentato con politiche di incremento delle spesa sociale e di elargizione di sussidi messe in campo a ridosso del voto, proprio per scongiurare il calo dei consensi. In generale, credo che la repubblica diventerà ancora più fragile e ci sarà meno rispetto reciproco fra le diverse componenti sociali».

Come è la tendenza in Turchia da vari anni, anche queste elezioni restituiscono infatti l’immagine di un paese diviso in due: l’opposizione al potere dell’Akp si mantiene nelle grandi città della costa occidentale e nelle regioni dell’est, mentre la cosiddetta “Anatolia profonda” rimane fedele al reis – memore, probabilmente, dell’uscita dalla povertà che le ha garantito il primo decennio del governo Erdoğan e suscettibile alla retorica della “minaccia dei terroristi curdi”.

A fine giornata, entrambi i leader hanno ringraziato i propri sostenitori. Kılıçdaroğlu si è mostrato quasi speranzoso: «I risultati hanno mostrato un desiderio di cambiamento», ha affermato parlando in pubblico. «Noi continueremo a lottare per la democrazia». Occorrerà vedere però quali spazi resteranno per questa battaglia: con anche la maggioranza in parlamento e forte dei suoi vent’anni al potere, il nuovo-vecchio presidente potrà continuare a modellare la Turchia sempre più a proprio piacimento.