Oggi Erdogan andrà in preghiera a Santa Sofia. Appena un anno fa, prima delle elezioni amministrative, così si era rivolto alla popolazione: «Non cedete alle provocazioni, prima di riaprire Santa Sofia riempite la moschea di Sultanahmet, che è lì di fronte». Dopo avere perso con le municipali Ankara e Istanbul, il suo partito l’Akp resta in sella grazie all’alleanza con l’estrema destra dell’Mhp, il partito dei Lupi Grigi.

Formazione iper-nazionalista, e al sostegno della parte tradizionalista dell’elettorato turco. Dopo un ventennio l’opposizione è riuscita per la prima volta a raggiungere le masse e ora l’epidemia di coronavirus ha peggiorato la situazione economica che sta in piedi, come le avventure militari in Siria e Libia, con i prestiti del Qatar.

L’AKP, SOPRATTUTTO dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, è sempre meno una sorta di democrazia cristiana alla musulmana, come è stato erroneamente descritto, e sempre di più una formazione che punta, insieme all’estrema destra, sul bellicismo in politica estera e sull’identità islamo-turca sul piano interno: la scatola nera del potere è in mano allo «stato profondo», un’invenzione dei generali kemalisti che Erdogan prima ha combattuto e poi ricreato affidandosi ai seguaci dell’Imam Fethullah Gulen, rinnegati dopo il golpe e poi combattuti insieme all’opposizione laica e curda mettendosi nella mani del suo capo dei servizi Hakan Fidan.

SONO TEMATICHE del resto assai frequentate dallo stesso Erdogan come seguace delle formazioni giovanili di Necmettin Erbakan. Erdogan rappresenta, nella sintesi del potere, la doppia identità turca, radicata contemporaneamente in due mondi diversi, quello occidentale – ovvero il continente, la civiltà europea e l’atlantismo – e quello asiatico, di cui il patrimonio culturale islamico-arabo è parte inseparabile. È dalla sua nascita come repubblica, nel 1923, che la Turchia vive il conflitto ideologico, culturale e politico che deriva da questa doppia origine: la Turchia di Erdogan ha tentato di trasformarla in un asset per allargare la sua influenza politica ed economica al Medio Oriente e la Mediterraneo.

Vediamo come si è arrivati al legame tra Turchia e Fratelli Musulmani e quali sono state le conseguenze.

La fine dell’Impero ottomano e la dissoluzione dopo la prima guerra mondiale del Califfato da parte di Kemal Ataturk aprono una crisi nel mondo musulmano: la prima risposta islamica è la creazione del 1928 in Egitto da parte di Hassan al Banna dei Fratelli Musulmani. L‘islam, dice Al Banna, è un ordine superiore e totalizzante che deve regnare incontrastato sulle società musulmane perché è al tempo stesso dogma e culto, patria e nazionalità, religione e Stato, spiritualità e azione, Corano e spada. L’obiettivo di Al Banna, del quale alla vigilia della caduta di Mubarak nel 2011, incontrai al Cairo Gamal l’anzianissimo fratello minore, è imporre la supremazia della sharia, la legge islamica, con un processo di integrazione tra gli stati islamici che deve sfociare nell’abolizione delle frontiere e nella proclamazione del Califfato.

Insomma l’Isis, che proclamò con Al Baghdadi il Califfato a Mosul nel 2014, non era poi così lontano dall’ideologia dei Fratelli Musulmani.

LE ORIGINI del rapporto della Turchia con i Fratelli Musulmani risalgono ancora agli anni Trenta e Quaranta e si svilupparono negli anni Settanta quando le organizzazioni islamiste vennero usate per contrastare i movimenti della sinistra marxista. Il primo «Fratello» turco eminente arrivato al potere è proprio Necmettin Erbakan – come confermò pubblicamente nel ’96 uno dei leader dei Fratelli musulmani egiziani – capo del movimento nazionalista religioso Milli Gorus che poi diventerà primo ministro. Méntore di Erdogan sarà sbalzato dal potere da un «golpe bianco» dei militari.

 

 

MA C’È UNA STORIA che quasi nessuno racconta legata alla confraternita della Naqshbandyya, una tariqa molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e fu in seguito associata al grande mistico del 14° secolo Muhammad Baha al-Din al Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione. I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno avuto un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale.

In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. È lui a trasformare la confraternita in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, che fece diverse aperture ai Paesi arabi, il premier islamista Erbakan e lo stesso Erdogan.

Izzat Ibrahim al Douri, vice di Saddam Hussein, era anche lui un membro della confraternita Naksibendi e furono queste credenziali religiose che lo avevano reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr alBaghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa. Non stupisce quindi che i baathisti iracheni abbiano dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di Al Baghdadi, come dimostrava il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq.

FU UN ALTRO fratello musulmano, Khaled Meshal, capo di Hamas e allora in esilio a Damasco (poi in Qatar), a convincere nel 2011 il ministro degli Esteri turco Davutoglu e lo stesso Erdogan che la rivolta contro Assad avrebbe avuto successo.

Fu allora che si progettò, con il consenso dell’ex segretario di stato Hillary Clinton, di aprire l’«autostrada del Jihad» dalla Turchia – baluardo sud dell’Alleanza atlantica – alla Siria che portò migliaia di jihadisti ad affluire nel Levante arabo con gli effetti devastanti che conosciamo, dai massacri contro i curdi all’intervento in Libia.

Santa Sofia è l’ultimo capitolo di una storia che fingiamo di non conoscere. Siamo complici di Erdogan e del suo filo-jihadismo, tutto qui.