Si aggrava la crisi diplomatica tra Turchia e diversi paesi europei, tra cui l’Italia, sulla vicenda legata alla Saipem 12000, nave da perforazione noleggiata dall’Eni e ad oggi ancora ferma al largo delle coste cipriote, dopo che lo scorso 9 febbraio era stata bloccata da unità militari della marina turca.

Il presidente turco Erdogan ha usato toni che lasciano ben poco spazio alla diplomazia in cui le cancellerie europee confidano ancora: “Nessuno deve pensare che passino inosservati opportunistici tentativi di esplorazione del gas. Consiglio alle compagnie straniere che operano fidandosi di Nicosia di non superare i limiti e piazzare i propri apparati. Le provocazioni sono seguite attentamente dai nostri aerei, navi e militari”. E ha concluso: “I nostri diritti ad Afrin non sono differenti dai nostri diritti a Cipro e nell’Egeo”, sottolineando come l’interessi nazionale vada difeso anche con l’intervento militare.

Una situazione che potrebbe prolungarsi almeno fino al 22 febbraio. Data non casuale, ma il termine delle esercitazioni militari che la Turchia sta conducendo nel braccio di mare che separa Cipro dalle coste libanesi e siriane. Il governo cipriota ha ammesso di aver ricevuto dalla Turchia la dovuta notifica, ma ritiene queste esercitazioni una violazione del diritto internazionale e un tentativo di boicottare le legittime attività di ricerca energetica.

Il braccio di mare include infatti anche la cosiddetta zona 3, dove la Saipem era diretta dopo aver concluso i lavori nell’area 6 sul giacimento Calypso, da poco scoperto a sudovest di Cipro. Entrambe le zone sono oggetto di contesta tra Turchia, Cipro e Grecia.

La zona 3 è stata oggetto di recenti operazioni di sondaggio affidate da Cipro ad Eni, alle quali il governo turco aveva reagito denunciando un’iniziativa unilaterale di Nicosia che viola i diritti dei turchi di Cipro nord. La zona 6, dove si trova il Calypso, è invece reclamata dalla Turchia come propria.

Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, ha affermato da il Cairo che tale zona rientra invece pienamente nella zona di esclusività economica di Cipro sud, negando di fatto la rivendicazione turca e aggiungendo anche un sibillino “la tensione è alta per altri motivi”.

L’irruenza di Ankara è stata interpretata come un segnale di nervosismo di fronte agli accordi di spartizione del bacino orientale del Mediterraneo tra Cipro, Israele, Egitto e Libano e che hanno relegato la Turchia in un angolo. Ankara rischia non solo di perdere la corsa all’accaparramento dei giacimenti, ma anche di vedere compromesso il suo progetto di fare dell’Anatolia un passaggio del mercato energetico obbligatorio tra i paesi produttori del bacino e l’Europa.

I successi energetici di Ankara, registrati sia con il corridoio Tap-Tanap dal Caspio all’Italia, sia con il gasdotto Turkish Stream nel Mar Nero, rischiano di venire ridimensionati da altri due recenti sviluppi.

Il primo è il passo indietro di Israele sul progetto del gasdotto dal giacimento Leviathan fino alle coste turche, dopo che i rapporti politici tra Ankara e Tel Aviv sono tornati ai minimi storici. Gli israeliani mettono oggi in dubbio l’investimento e guardano a paesi come l’Egitto o, appunto, Cipro stessa.

Cipro infatti è il perno del progetto Eastmed, ambizioso gasdotto tra Israele, Cipro, Grecia e Italia su cui l’Unione Europea ha stanziato 34 milioni di euro destinati alla IGI Poseidon, società greca che si occuperà di sviluppare il progetto, oltre ad un ulteriore fondo di 100 milioni destinati a “terminarne l’isolamento e consentire il transito di gas dalla regione del Mediterraneo orientale”. Un progetto che suscita perplessità tra gli esperti per i costi stimati in 6 miliardi di dollari.

La crisi a cui assistiamo è legata al fatto che la Turchia agisce secondo criteri non riconosciuti dalla comunità internazionale, rispondenti alla propria posizione su questioni irrisolte. La prima riguarda lo status di Cipro Nord, la seconda la delimitazione della zona economica esclusiva (Zee) dei paesi affacciati su quei mari, marcate secondo trattati internazionali che Ankara non riconosce.

Data la vicinanza delle piccole isole greche alla costa turca infatti, la sua Zee viene compressa in un modo che la Turchia considera ingiustamente punitiva per il proprio interesse nazionale. La corsa al gas naturale non fa che alimentare frizioni su problemi a cui la politica si è rivelata incapace di dare soluzione.