È a un passo dalla rottura il dialogo tra il governo e il Comité del paro. L’intervento a gamba tesa dell’ex presidente Álvaro Uribe, con le sue esplicite critiche alla gestione delle manifestazioni da parte di Iván Duque, ha fatto saltare la firma dell’accordo preliminare sulle garanzie per l’esercizio della protesta, che era stato raggiunto dopo nove faticose giornate di trattative.
Che il mentore politico dell’attuale presidente, il politico più potente e più odiato della Colombia, stesse mostrando segni di crescente insoddisfazione era già apparso evidente. Ma i segnali di scontento hanno lasciato spazio a un deciso richiamo all’ordine rivolto al suo pupillo, accusato, in un’intervista a El Mundo, di mancare di fermezza di fronte al «vandalismo orchestrato» allo scopo di «imporre un risultato elettorale il prossimo anno», naturalmente con il sostegno del governo Maduro.

E ANCORA PIÙ ESPLICITO l’ex presidente è apparso in un webinar con un gruppo di imprenditori cileni, quando ha criticato il governo – con «affetto» e «rispetto», ci ha tenuto a precisare – di essersi dimenticato delle «bandiere con le quali era stato eletto», a cominciare ovviamente dalla sicurezza, il vero marchio di fabbrica del Centro Democrático.

Alla tirata di orecchie da parte di Uribe, il “subpresidente”, come il popolo colombiano ha ribattezzato Duque proprio per la sua dipendenza dal leader della destra più estrema e guarrafondaia, è scattato sull’attenti, sfoderando nuovamente il pugno di ferro. Così, da una parte ha ordinato la militarizzazione di 21 aree di otto dipartimenti del paese, triplicando la presenza delle forze armate a Cali e nel dipartimento del Valle del Cauca – e così sconfessando proprio il primo punto dell’accordo preliminare – e dall’altro ha inserito come condizione per portare avanti il negoziato la rimozione di tutti i blocchi stradali: richiesta che il governo aveva già espresso con chiarezza, ma che figurava tra i punti da trattare nel successivo negoziato.

«Chiediamo non solo che sia espresso un ripudio categorico dei blocchi stradali, ma che vengano anche date istruzioni per rimuoverli», ha dichiarato Duque a El País, sostenendo che il paese «non può sentirsi né asfissiato né sequestrato».

TRA URIBE E IL SUO PUPILLO è così tornata la pace: «Come ho espresso le mie preoccupazioni, applaudo ora alle decisioni adottate dal presidente e auspico che siano portate avanti con tutta la fermezza possibile».

Una «fermezza» che ha condotto il dialogo a un punto morto, considerando che il Comité del paro non solo non è responsabile di tutti i blocchi stradali realizzati nel paese ma non è neppure disposto a condannarli indiscriminatamente, ritenendoli una forma di protesta legittima allorché accompagnata da corridoi umanitari. «È in questo modo che per anni tante persone sono riuscite a farsi ascoltare dal governo. Se non mettono in pericolo l’accesso agli alimenti e alla salute, perché dovremmo condannarli?», ha dichiarato Óscar Gutiérrez di Dignidad Agropecuaria.

È in questo quadro che, dall’8 all’11 giugno, si svolgerà la visita nel paese della Commissione interamericana per i diritti umani, decisa in particolare a verificare quanto avvenuto a Cali il 28 maggio, quando sono state assassinate 14 persone, e preoccupata delle informazioni sulla crescente presenza di civili impegnati a sparare contro i manifestanti sotto la protezione della polizia.

E MENTRE IL COMITÉ DEL PARO ha convocato per oggi altre «grandissime mobilitazioni pacifiche», cresce al suo interno il timore di un colpo di stato dell’uribismo attraverso la proclamazione dell’«estado de conmoción interior», una sorta di stato d’assedio che consentirebbe al presidente di assumere poteri speciali per riportare l’ordine nel paese.