Tra i giovani artisti segnati dalla novità matissiana di una pittura affrancata dai legami con il soggetto c’era certamente anche Ellsworth Kelly, nato a Boston nel 1923. A lui la Fondation Vuitton dedica una mostra (fino al 9 settembre) in occasione del centenario della nascita. Kelly è un artista di casa dato che nel 2014 era stato voluto da Frank Gehry, architetto del faraonico guscio di vetro eretto ai margini del Bois di Boulogne, per la decorazione dell’auditorium: l’ambizione inseguita tutta la vita per un’opera d’arte totale trova una delle più notevoli espressioni in questa installazione, imperniata su Spectrum VII, il grande fondale a strisce verticali di dodici diversi colori.

Nel percorso di Kelly si coglie un filo conduttore ribadito con un’intransigenza incalzante: è la presa di distanza da qualsiasi intenzione di autorialità. Nella cruciale stagione parigina tra 1948 e 1954 Kelly aveva ricevuto una folgorazione visitando l’atelier e il giardino di Monet a Giverny. «Sentivo che queste opere erano dichiarazioni belle e impersonali», aveva commentato davanti alle Ninfee. Infatti la ricaduta di quella folgorazione sul suo lavoro era stata nella chiave di una radicale impersonalità: è il caso del Tableau vert, un monocromo del 1952 di formato quadrato, che quindi escludeva ogni allusione a una prospettiva paesaggistica. L’anno prima Kelly aveva dato un’altra prova della sua radicale avversione contro ogni tentazione soggettivistica in pittura: è il caso di Seine, una tela dove il motivo retinico dei giochi di riflessi dell’acqua è annullato e ricondotto dentro una griglia dove piccoli quadrati neri, quasi dei pixel, intensificano la loro presenza verso il centro della tela, seguendo un criterio non controllato dall’artista ma affidato al caso.

Il ritorno negli Stati Uniti a metà degli anni cinquanta è segnato da un avvicinamento al linguaggio del minimalismo, che Kelly mette in atto declinandolo in una prospettiva architettonica. È il caso delle shaped canvases, grandi tele montate su telai di forme sempre variate disegnate dall’artista. «Finiamola con i quadri, le pitture devono essere il muro»: una distinzione chiara, in particolare a livello mentale, che si traduce nella fattualità di eleganti opere che, pur restando inevitabilmente appese ai muri, danno l’illusione di essere tasselli incastonati nella parete.

Nel percorso della mostra parigina il punto zenitale, per tensione visiva e poetica, viene toccato con l’installazione Yellow Curve, realizzata nel 1990 per il centro d’arte Portikus di Francoforte e qui riproposta. Si tratta di una grande tela in forma di spicchio, dipinta con un giallo abbagliante e perfettamente omogeneo. L’opera è distesa per terra e riceve luce dall’alto, dando l’illusione di un frammento di sole stampato sul suolo. La stesura del colore ad acrilico è evidentemente manuale, ma l’abilità di Kelly sta nel rendere impercettibile la concretezza del suo agire, nel segno di una pittura che vuole farsi intendere come luce, in una prospettiva aperta dalle soluzioni radicali dei Ganzfelds di James Turrell.