Ieri Sami Anan, ex capo di Stato maggiore egiziano, da poco candidato alle presidenziali del 26-28 marzo, è stato arrestato: ufficialmente – dicono fonti della sicurezza – è stato «convocato» con l’accusa di aver falsificato documenti ufficiali nei quali dichiarava di essersi ritirato dall’esercito, condizione necessaria alla candidatura.

Un altro potenziale sfidante che salta pochi giorni dopo l’attesa ricandidatura dell’ex generale al-Sisi: il 19 gennaio in un discorso tv ha rivendicato i risultati del primo mandato e promesso che non permetterà a dei «corrotti» di «salire su questa sedia». Una minaccia poco velata, che rende la possibilità di una corsa solitaria ogni giorno più probabile.

Se la National Elections Authority ha ricevuto richieste di monitoraggio del voto da 48 organizzazioni locali e internazionali, il problema è a monte: la barriera è mediatica. La denuncia è di altri aspiranti candidati: Mohamed Anwar Sadat, nipote dell’ex presidente, non è riuscito a trovare un hotel o una sala conferenze (la risposta ricevuta: ordine dei servizi di sicurezza) che ospitasse il lancio della campagna e nessuna tipografia ha voluto stamparne i volantini. Alla fine si è ritirato. Lo stesso ha fatto l’ex premier e uomo di Mubarak, Ahmed Shafik: non sono l’uomo giusto, ha detto, troppo tempo trascorso fuori dal paese. Ma il motivo – riportano fonti a lui vicine – è stata la minaccia del governo di scatenargli contro la magistratura per casi di corruzione.

E poi c’è Khaled Ali, avvocato e rappresentante della sinistra, su cui pende la condanna per gesti osceni. L’appello si terrà il 7 marzo: se la sentenza sarà confermata sarà fuori dalla corsa. Nel frattempo anche lui è nella pratica impossibilitato a presentare pubblicamente la candidatura