Sono giorni di grande tensione quelli che sta vivendo El Salvador da quando, lo scorso 9 febbraio, il 38enne presidente Nayib Bukele ha fatto irruzione in Parlamento circondato da una cinquantina di militari e di poliziotti pesantemente armati, si è seduto nel posto riservato al presidente dell’Assemblea nazionale e ha dichiarato: «Credo che ora sia chiaro chi ha il controllo della situazione».

UN’AZIONE SENZA PRECEDENTI, proseguita con un ultimatum di una settimana per l’approvazione di un prestito di 109 milioni di dollari per il suo piano di sicurezza pubblica, con la minaccia di un’insurrezione popolare e con l’assicurazione che Dio gli aveva parlato consigliandogli di avere pazienza.

Non senza una rivendicazione finale del suo rispetto per la democrazia: «Se fossi un dittatore avrei preso il controllo di tutto», ha precisato, convinto di avere dalla sua parte, oltre alle forze armate, il 90% della popolazione.

 

Nayib Bukele in parlamento il 9 febbraio (Ap)

 

L’autorizzazione per la richiesta del prestito al Banco Centroamericano de Integración Económica era stata sollecitata da Bukele per l’esecuzione della terza fase del suo piano di controllo territoriale contro le maras, le bande criminali che hanno reso El Salvador uno dei paesi più violenti al mondo. Un piano che, secondo i dati forniti dal governo, avrebbe già ridotto il numero di omicidi dai 9,2 al giorno di giugno ai 3,8 registrati a gennaio, consentendo al “presidente milenial” di mantenere l’appoggio di buona parte dei suoi elettori, tra cui molti ex militanti del Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln). Tanto più di fronte alle rivelazioni di negoziati illeciti con le bande criminali portati avanti da alti dirigenti tanto dell’ex guerriglia quanto del partito di estrema destra Arena.

DI FRONTE PERÒ AL RITARDO del Parlamento ad approvare lo stanziamento richiesto – destinato tra l’altro all’acquisto di una nave da 26 milioni di dollari considerata di dubbia utilità -, il presidente aveva provveduto non solo a convocare per il 9 febbraio, con un chiaro strappo alla Costituzione, una sessione straordinaria dell’Assemblea legislativa, ma anche ad occuparla militarmente, senza peraltro riuscire a impedire che i deputati dell’Fmln e di Arena facessero mancare il numero legale. E la Corte costituzionale ha dato loro ragione, stabilendo il divieto per il presidente di procedere a nuove convocazioni straordinarie e l’obbligo per l’esercito e la polizia di attenersi ai compiti previsti dalla Costituzione.

A CALMARE I BOLLENTI SPIRITI del giovane presidente, molto più dell’invito alla prudenza rivoltogli da Dio, è stata sicuramente la presa di posizione dell’ambasciata degli Stati uniti – senza il cui placet non cade neppure una foglia nel piccolo paese centroamericano – a favore «del dialogo e del rispetto della Carta costituzionale».

Cosicché, domenica, l’ultimatum è scaduto senza produrre nell’immediato alcuna conseguenza, benché, a tenere alta la tensione nel paese, ci abbia pensato l’ex presidente dell’Assemblea legislativa Walter Araujo, il quale, in un atto di fronte al Parlamento a cui hanno preso parte non più di 500 persone, ha lanciato ai parlamentari, in mezzo a insulti e minacce, un nuovo ultimatum di 15 giorni per l’approvazione del prestito.

DURA LA REAZIONE della Coordinadora de Movimientos Populares, che unendosi alla denuncia di autogolpe espressa dai più diversi attori nazionali e internazionali, ha ricordato che il diritto all’insurrezione è ammesso dalla Costituzione «quando sono i governanti a violare i principi della Carta, non viceversa». E ha evidenziato come, oltre al finanziamento della sicurezza pubblica – su cui Bukele sembra centrare tutta la sua azione politica, peraltro con un esclusivo taglio repressivo – vi siano altri temi non meno urgenti, come l’approvazione della Legge sull’acqua, la nazionalizzazione del sistema pensionistico, l’approvazione di riforme fiscali progressive.