Non c’è pace per Alaa Abdel Fattah, attivista, blogger e intellettuale, figura di spicco della rivoluzione egiziana del 2011, vittima anche lui dell’ondata di repressione scatenata dal regime dopo le proteste del 20 settembre.

Domenica mattina come ogni giorno sarebbe dovuto uscire dalla stazione di polizia di Doqqi, dove è costretto ormai da circa sei mesi a trascorrere la notte, secondo le regole del regime di sorveglianza speciale a cui è sottoposto.

Ad attenderlo fuori la madre, che si è insospettita quando ha trovato l’intera area transennata, per poi scoprire che Alaa era stato arrestato. Finora è stato impossibile per i familiari sapere dove si trova detenuto Alaa e in quali condizioni.

«STAVA TENTANDO di ricostruire una vita che è stata completamente distrutta. Ha dovuto ricominciare tutto: il lavoro, la vita personale e il suo ruolo di padre», ha scritto in un tweet la sorella Mona Seif, anche lei attivista. Figlio di uno storico militante di sinistra, Alaa ha sperimentato il carcere per la prima volta nel 2006 durante l’era Mubarak, poi dopo la rivoluzione è stato di nuovo imprigionato diverse volte, sia sotto i militari che sotto i Fratelli Musulmani, fino a essere condannato a 5 anni dal regime di al-Sisi, pena finita di scontare solo pochi mesi fa.

Dopo l’ultimo rilascio Alaa aveva ripreso a pubblicare alcuni saggi, ma senza tornare attivamente alla politica.

L’assurdo è accaduto durante l’interrogatorio, quando l’avvocato Mohammed el-Baqer, dopo essersi presentato per assistere Alaa è stato a sua volta arrestato domenica sera tra lo stupore degli altri legali presenti e ora si ritrova indagato nella stessa inchiesta insieme al suo cliente, incriminati entrambi per diffusione di notizie false e appartenenza a un’organizzazione illegale.

Adesso devono scontare 15 giorni di custodia cautelare. Stessa sorte era toccata pochi giorni fa alla 33enne attivista comunista e avvocatessa Mahienour el-Massry, prelevata con la forza da uomini delle forze di sicurezza poco dopo essere uscita dalla procura dove aveva prestato assistenza ad alcune delle persone detenute in relazione alle proteste.

A MOLTI AVVOCATI è stato impedito in questi giorni di accedere alle corti e incontrare gli indagati, mentre il bilancio è salito in queste ore a oltre 2.300 persone arrestate da venerdì scorso, superando i record già vergognosi del regime di al-Sisi. Presi di mira anche gli stranieri, tra cui un giovane olandese, di cui la famiglia denuncia la scomparsa.

Anche l’Alta Commissaria Onu per i Diritti Umani Michelle Bachelet ha espresso «forti preoccupazioni» per la repressione in atto. Negli ultimi giorni sono finiti dietro le sbarre numerosi esponenti delle opposizioni, tra cui i nasseristi del partito Karama (Dignità) e diversi militanti di sinistra, appartenenti all’Alleanza popolare socialista e al partito Pane e Libertà. Il regime spera che arrestando gli intellettuali si fermino le proteste.

Stavolta però, a differenza del 2011, non sono le organizzazioni pro-democrazia ad aver chiamato la gente a scendere in piazza. A manifestare sono stati per lo più cittadini non politicizzati, frustrati dai fallimenti economici del regime, dal deteriorarsi delle condizioni di vita e dai continui arbitri delle forze di sicurezza.

COLPIRE LE FORZE POLITICHE perciò potrebbe non avere effetto sulle proteste, anche se certamente sarà più difficile che trovino una cornice politica e organizzativa. Il rischio è quello di una rabbia popolare espressa in forme sempre più estreme e senza sbocco, che potrebbero sfociare in un bagno di sangue, o in un nuovo golpe.