Da mesi in tutti i Balcani ci sono manifestazioni di piazza. Da Lubljana in Slovenia,, dove sono comparsi anche i jilet jaunes, a Zagabria, dove i giornalisti hanno protestato qualche giorno fa contro le pressioni del governo sui media, a Belgrado, dove l’opposizione chiede le dimissioni del Presidente Vucic. Si protesta però anche a Banja Luka, a Podgorica e a Sarajevo. Nei Balcani serpeggia un malcontento generale.

Le ragioni e i pretesti di ciascuna di queste proteste sono molto diverse da paese a paese e da città a città. In Serbia le manifestazioni vanno avanti da più mesi e si svolgono ogni sabato, in parallelo a quasi tutte le principali città del paese. Qui l’opposizione è guidata da Dragan Djilas, Vuk Jeremic e Bosko Obradovic, i primi due sono definiti da Vucic come tycoon locali, mentre l’ultimo come «fascista». E lo è per davvero. Obradovic è ammirato dall’estrema destra di tutta la regione per i suoi discorsi profascisti e radicalmente omofobi. Sabato sera a Belgrado i manifestanti sotto la sua guida sono riusciti a irrompere nella Tv pubblica, fermando i programmi televisivi. Se da una parte non si vede la fine di queste proteste, per ora Vucic sembra stare ben in sella. Questo infatti, gode della fiducia dei burocrati di Bruxelles, poiché da ex nazionalista radicale quale è, viene visto come l’unico capace di risolvere (e di tenere stabile, ma in un grande, pericoloso vuoto) la questione del Kosovo, assicurando così il cammino della Serbia verso la promessa dell’integrazione europea. Vucic è anche molto abile nel tendere una mano alla Russia e al contempo implementare i rapporti con la Nato.

Proprio in questi giorni di fine marzo ricorrono i venti anni dei bombardamenti Nato su quello che rimaneva dell’ex Jugoslavia. Abbiamo provato a sentire cosa ne pensano oggi i giovani e le diverse anime della sinistra radicale serba fino alla fine di settembre partecipe delle manifestazioni di piazza, di quei tragici 78 giorni di bombardamenti. L’associazione Marks21 -associazione di forte stampo internazionalista e trotzkista- in occasione dei 20 anni di bombardamenti, sta organizzando un convegno internazionale dal titolo: «Il No balcanico alla Nato». L’idea è di proporre una riflessione antinazionalista e su «come liberare i Balcani dall’imperialismo».

Pavle Ilic, attivista di Marks21, dice: «In realtà l’anniversario passa quasi come un evento di secondo ordine e a Vucic conviene che sia così. Per la sua politica di avvicinamento all’Unione Europea e alla Nato, non gli conviene troppo problematizzare gli accadimenti di venti anni fa. Negli ultimi dieci anni questo tema è stato sempre più attutito, così dell’argomento dei 20 anni dopo, se ne parla meno di quanto se ne parlava 10 anni fa. Il governo prevede una grande manifestazione ufficiale – una parata militare che si svolgerà a Nis e non a Belgrado». «Di quei bombardamenti – continua – i più giovani ne sanno poco, poiché a scuola si insegna la storia dei re medievali serbi o del ruolo del paese nella Prima Guerra mondiale, ma del recente passato quasi non si parla. La guerra con la Nato non ha per il nazionalismo serbo “quell’aurea” che la guerra patriottica degli anni Novanta ha per i croati». Secondo Ilic, i leader delle proteste che riempiono le piazze in realtà condividono la posizione di Vucic su questi temi: «La narrazione nazionalista sul piano interno e il parallelo potenziamento della collaborazione con la Nato. Le nostre élite gareggiano tra loro nel chi è più ubbidente verso i vari padroni del mondo e chi ci integrerà prima nelle strutture europee e atlantiche. La politica di queste élite verso i nostri vicini rimane all’insegna della inimicizia e dell’ostilità. Così i Balcani rimangono la facile preda dei vari padroni sia dell’Ovest che dell’Est».

Stasa Zajovic, storica leader dell’associazione Donne in Nero, dice che la parata che ci sarà a Nis «serve al potere sul piano interno per tenere buono, ma anche vivo, il nazionalismo. Su questo punto, quelli che guidano le proteste in piazza non sono diversi da Vucic, anzi sono forse anche peggio». Ma per fortuna c’è anche gente diversa. Infatti, Stasa racconta che qualche giorno fa è apparsa a Drocul (uno dei quartieri centrali di Belgrado), la scritta: “Viva la solidarietà del popolo serbo e del popolo albanese”». Più critico di tutti è il giovane Stefan Milosavljevic, giovanissimo attivista delle Donne in Nero, nato in Kosovo nel 1997. Per lui la Serbia è ancora lontana dall’aver fatto i conti con il proprio passato. Allo stesso tempo però «la Serbia dopo venti anni non ha ancora censito le vittime dei bombardamenti Nato. Questo fatto è la prova migliore di quale natura sia veramente il rapporto dello Stato verso le vittime serbe di quella guerra», ricorda Stefan, che da bambino ha subìto sulla propria pelle i cosiddetti “effetti collaterali” dei bombardamenti umanitari e oggi è uno delle tante displaced persons in quello che dovrebbe essere il suo paese. Come non comprendere la sua rabbia, un po’ confusa, tanto verso il nazionalismo serbo quanto verso la Nato.