È probabile che la prima e più compiuta rappresentazione del mondo e delle sue dinamiche, delle sue contraddizioni ma anche dei suoi paradossi, Eduardo Galeano (1940-2015) l’abbia avuta o anzi immaginata ascoltando la radio, in casa sua, il 16 luglio del 1950. Quel giorno, quasi duemila km più a nord, nell’appena costruito Maracanà di Rio de Janeiro, il più grande stadio del mondo, si affrontavano nella partita conclusiva della Coppa Rimet la squadra di casa, un Brasile fortissimo, strafavorito dal pronostico, e appunto l’Uruguay, un paese con meno abitanti di Roma e però dedito al calcio con tale capillare devozione da esibire puntualmente una parure di fuoriclasse. Fatto sta che quel giorno proprio i calciatori della Celeste, presto in svantaggio sotto i colpi degli assi verdeoro, con l’orgoglio e la tenacia dei morituri prima rimontarono poi prevalsero grazie ai gol di due oriundi italiani, Juan Alberto Schiaffino e Alcides Ghiggia, guidati in campo dal centromediano dell’Uruguay, un nero e saggio bon vivant, il capitano Obdulio Varela che i brasiliani poi ritennero per sempre il responsabile del Maracanazo, da allora sinonimo per loro di massima calamità nazionale.

AL DECENNE Eduardo Galeano, patito di calcio e tifoso acerrimo dei biancoazzurri del Nacional, unitosi in strada alle torme di ragazzini tripudianti, di colpo balenò al di là delle lacrime di gioia l’immagine di Davide che atterra Golia, quasi che la postura e le proporzioni del mondo conosciuto si invertissero fra Sud e Nord, fra chi è sotto e chi è sopra. È anche probabile che al piccolo ginnasiale una tale favolosa inversione rammentasse gli animali eloquenti delle favole di Esopo, specie quella del lupo e l’agnello su cui tante volte sarebbe ritornato lo scrittore antropologo di Memoria del fuoco (1982-’86) e il giornalista militante, non meno grande testimone, il firmatario del libro che a molti di noi rivelò gli arcani politico-sociali dell’universo australe e dunque le dinamiche dell’imperialismo occidentale, cioè Le vene aperte dell’America latina (1971). Galeano non ha mai abiurato la passione nativa per il fùtebol nonostante regimi sanguinari in Sudamerica l’abbiano strumentalizzato come un oppio vero e proprio (su tutti, fra i tristi macellai, il generale Medici in Brasile, Videla in Argentina, Bordaberry nel suo paese) e nonostante il calcio della Celeste abbia subito, fra gli anni sessanta e settanta, una tale involuzione (fallosità e sistematica, mediocrità tecnica, avarizia tattica) da trasformare la leggendaria garra charrua, vale a dire l’ardore psicofisico e insieme la dignità morale degli indios che ne emblematizzava il gioco, in iattanza belluina e sfacciata scarponeria. Tuttavia, in lode del suo fùtebol ideale eterno Galeano scrisse la piccola bibbia per appassionati che in italiano si intitola Splendori e miserie del gioco del calcio (Sperling & Kupfer 1997) e la scrisse, gli capitò di dire, letteralmente «per la conversione dei pagani». Certo pensava alla seconda metà degli esseri umani (la stessa che ritiene il calcio una passione infera, una droga letale) e specialmente agli intellettuali, quelli di destra che vedono nel calcio l’eterna naturale inferiorità del popolo e quelli di sinistra che lo vedono un istrumentum regni per imbonire e plagiare il popolo medesimo. Che Galeano viceversa pensi il calcio e i suoi infiniti utilizzi come un doppio della nostra esistenza, passibile nel bene e nel male di tutto e del contrario di tutto, è adesso riprova la raccolta di scritti dispersi Chiuso per calcio (edizione italiana a cura di l’Ultimo Uomo, traduzione di Fabrizio Gabrielli, Sur, pp. 326, euro 19.00) che si avvale della prefazione di Daniele Manusia e in appendice di un utile glossario approntato dalle firme de «l’Ultimo Uomo», forse il migliore fra i blog che in Italia si occupino di cultura sportiva.

La natura dei testi è composita e si va dall’intervista (fantastica quella del ’63 con Pepe l’agente di Pelé che parla al posto di Pelé ma in presenza di Pelé) alla cronaca (e qui i lettori ricorderanno gli articoli che in occasione dei Mondiali mandava puntualmente al manifesto), fino alla pagina di diario e all’intervista tra cui quella concessa nel ’95 a «El Grafico», leggendario periodico argentino, dove si legge la sua dichiarazione di poetica: «Perché il calcio è lo specchio del mondo, e io nei miei libri mi occupo della realtà. E il calcio è una parte fondamentale della realtà, mi è sempre parso molto scandaloso che la storia ufficiale ignori questa parte della memoria collettiva che è il calcio in paesi come il nostro, come il tuo e come il mio. I libri di storia del Novecento non lo nominano mai, non esiste; ed è stato fondamentale per la gente in carne e ossa. Come sarebbe a dire che non esiste?» Ma la forma che via via si impone nella parte più cospicua e recente di Chiuso per calcio è l’apologo, in cui torna l’antica passione per le favole esopiche e il progressivo intento di dire il più con il meno, di non sprecare le parole, di andare diritto all’essenziale.

PERCIÒ I LIBRI della maturità di Galeano hanno tutti un’identica forma e sono contenitori di notizie, aneddoti, short stories, parabole e basti pensare, fra gli altri, a Le parole in cammino (Mondadori 1996), A testa in giù (Sperling & Kupfer 1999), Specchi (ivi 2008). In youtube si vede lo scrittore al Festival di Mantova, nel 2008, fare nel suo dolce patois neolatino appunto professione di sobrietà linguistica e di ascetismo stilistico ma tutto ciò non toglie che la sua inventiva resti intatta nel tempo e così l’acume di uno sguardo dove si combinano l’ironia, che è freddo autocontrollo e distanza, insieme con l’empatia che invece tradisce prossimità e calore.
La pagina di Galeano è classica nel senso che dispone linearmente nomi e verbi mentre omette o comunque diffida degli aggettivi e delle proposizioni subordinate: per niente facile da tradurre, pari a tutto quanto si presenti semplice o immediato, va dunque reso merito a Fabrizio Gabrielli per la esattezza di una resa che conferma le doti di scrittore saggista già note peraltro a chi abbia letto i suoi più recenti contributi (Cristiano Ronaldo. Storia intima di un mito globale, 2019, e Messi, 2022, entrambi editi da 66thand2nd). È difficile che Galeano manifesti un entusiasmo che non sia drenato da un filo di malinconia, difficile che nell’esultanza per una vittoria non si insinui un pensiero per chi è umiliato e sconfitto. Fra gli scrittori sudamericani di calcio, e non sono né furono pochi, Galeano rammenta più Osvaldo Bayer per i suoi interessi di natura sociale che non la tenerezza poetica che lievita nella pagina di Osvaldo Soriano o di un epigono di qualità come Jorge Valdano: fra gli autori di oggi gli è semmai più vicino Sergio Levinsky, il biografo del Pibe de Oro e per la sua quota brasiliana il nostro Darwin Pastorin, l’autore di Ode per Mané (1996). Pressoché fatale che l’eroe di Eduardo Galeano, che comunque diffida di simili iperboli, altri non possa essere che Diego Armando Maradona, il campione elevato a semidio in cui si concentrano tutti i paradossi e le contraddizioni dell’essere umano, colui «che non veniva adorato solo per i suoi prodigiosi giochi di prestigio ma anche perché era un dio sporco, peccatore, il più umano delle divinità. Chiunque poteva riconoscere in lui una sintesi ambulante delle fragilità umane, o perlomeno maschili; donnaiolo, ingordo, ubriacone, imbroglione, bugiardo, spaccone, irresponsabile».

IRRESPONSABILE, aggiungeremmo, come potevano esserlo gli dèi dell’Olimpo, vale a dire degli esseri in possesso delle qualità e dei vizi degli umani però condotti a dismisura. Ed è perciò che quando pensa a Maradona, alla partita con l’Inghilterra in cui fece i due gol apicali (l’uno dribblando mezza squadra, l’altro con la mano de Dios) subito gli viene in mente Diego in manette, vilipeso e gettato nella polvere. Oppure pensa a sé stesso bambino, quello che scese in strada il 16 luglio del ‘50 inneggiando alla Celeste e pensa anche a Obdulio il capitano, il quale pare festeggiasse la vittoria a modo suo, da solo in un caffè di Rio de Janeiro, bevendo e abbracciando commosso gli sconfitti.