Luca Tacchetto e la sua compagna di viaggio canadese Edith Blais sono stati liberati venerdì in Mali dopo 15 mesi di prigionia. Si trovavano nel paese dopo essere stati rapiti il 16 dicembre 2018 in Burkina Faso. Da quel momento poche scarne notizie e molta riservatezza. Sarebbero stati prigionieri di una delle milizie che si muovono nel Sahel, etniche, jihadiste.

Probabilmente prima rapiti da banditi e poi venduti a una milizia. Secondo il capo della missione Onu Minusma in Mali, Mahamat Saleh Annadif, «Luca Tacchetto e Edith Blais sono riusciti a fuggire dai loro sequestratori a Kidal in Mali e hanno fermato un’auto che li ha condotti alla più vicina base dei caschi blu Onu».

C’è in tutto il Sahel una situazione di insicurezza generalizzata: data l’assenza delle istituzioni ogni popolazione ha creato un suo gruppo armato, ma nella confusione prosperano anche i gruppi jihadisti (ritenuti tra i probabili rapitori).

Una violenza che dalle regioni centrali del Mali è esplosa fino al Burkina Faso, ma interessa anche Nigeria, Ciad, Niger e Repubblica centrafricana. Milizie che si scontrano e si confondono. E alla fine la gente non capisce più dov’è meglio stare.

Nei mesi scorsi dal Mali si fuggiva in Burkina Faso, ma negli ultimi giorni accade il contrario: secondo quanto riferito dall’Unhcr, «circa 14mila persone sono fuggite dalle loro case nel Burkina Faso in soli 17 giorni, portando gli sfollati interni a 780mila, ma le recenti violenze hanno anche costretto oltre 2.035 persone a fuggire nel vicino Mali. Un numero preoccupante di rifugiati maliani afferma che è più sicuro tornare nel paese di origine piuttosto che rimanere in Burkina Faso».

L’insicurezza rende la vita dei rifugiati maliani (circa 25mila) che avevano cercato protezione in Burkina Faso ancora più difficile. Anche le organizzazioni umanitarie non possono agire in condizioni di sicurezza e hanno bisogno di canali di accesso sicuri per fornire assistenza.

Lo scorso novembre l’Unhcr ha dovuto allontanare il proprio personale dalla città di Djibo. Di conseguenza la distribuzione degli aiuti per i 7mila rifugiati del campo di Mentao è stata possibile solo a intermittenza.

La violenza tuttavia è continuata con il passare dei mesi muovendosi a macchia di leopardo e nelle ultime settimane è arrivata nei dintorni di Dori dove anche campi e villaggi sono stati presi di mira. Le persone non possono più accedere ai mercati e alle scuole, riferiscono dall’Unhcr.

A Goudoubo circa il 70% degli 8.781 rifugiati ha scelto di lasciare volontariamente il campo: il 57% per tornare in Mali, il 13% per essere trasferito in altre città del Burkina Faso ritenute più sicure. Ai rifugiati che desiderano tornare è stato consegnato un modulo di rimpatrio volontario che permette di viaggiare e di ricevere un pagamento una tantum per coprire i costi di trasporto e beni di prima necessità.

Le persone vengono informate delle condizioni di insicurezza, ma il problema è che non si sa più dove andare. La soluzione sembra ormai armarsi. Ma più armi, significa più violenza.